E voglio ancora volare

E così, avresti settant’anni. Sì, certo che lo so che il tuo compleanno era l’altro ieri, ma sai, per quanto normalmente cerchi di essere puntuale, questo non è certo il mio primo ritardo, né il più grave, nei tuoi confronti. Avrei dovuto venire a incontrarti prima, e non dopo. Avrei dovuto sapere prima che quelle parole che dicevo non erano uno scherzo. Io mi sentivo molto come Mork, sai, goffa, sempre inadeguata, fuori posto come un piolo rotondo in un foro quadrato. Che Mork sapesse guardare il mondo con l’intelligenza tanto acuta quanto generosa di chi le realtà più crudeli del mondo le conosce benissimo, ma sceglie l’innocenza per mostrarre il lato comico, assurdo, ma anche umanissimo delle nostre scelte quotidiane, beh, anche questo l’ho capito (un po’) più tardi. Ma io volevo trovare, come lui, il modo di essere allo stesso tempo fuori e completamente dentro. Volevo volare come Garp, possedere la dolcezza e il coraggio di Adrian Cronauer, e naturalmente, certo, cambiare il mondo insegnando come John Keating, ma sai, non è che veramente volessi insegnare, è che anche quella era una forma di volo, come l’uovo di Mork (e il suo piccolo amico Bruco), come il deltaplano di Garp, come la polvere di fata di Peter Pan, come quell’amore così grande e così fuori dall’ordinario che era in John e in Adrian, ma anche, che so, nella satirica “guerra” di Jack Moniker o di Jakob il Bugiardo; e anche in Volodya, che volava con il suo sassofono in Armand Goldman; in Chris Nielsen, naturalmente; e in Malcolm Sayer, che volava con la sua testardaggine; era nella rabbia di Henry Altmann, che come te ha deciso di non avere tomba, e nell’affetto sempre un po’ sbagliato del Papà migliore del mondo. Era nei tuoi spettacoli studiatissimi, eppure un po’ reinventati ogni volta, perché tu eri. Il volo e l’amore e tutto il resto. Ed era, continuo a pensarlo, in quella scelta estrema, che era estrema solo per gli altri, non per te, perché tu il tuo anticonformismo lo hai sempre vissuto quasi sottovoce, con umiltà e con quel cuore grandissimo che nessuno dimentica. Ed è un altro volo anche questo, mi piace sperare che non sia comunque l’ultimo, che tu continui, da qualche pianeta chissà dove, a esplorare mondi, a viverli raccontandoli e raccontarli vivendoli. Anche quella biografia bellissima, così bella che dopo sette anni non sono ancora riuscita a finire di leggerla, avrei voluto scriverla io, ma non ero lì, non c’ero, sono arrivata tardi, faccio altro, e comunque vivo, che era quello che tu dicevi di fare, dopotutto. Però, ecco, a un certo momento avevo “dovuto” scrivere, e tu eri nella mia scrittura, e adesso non scrivo quasi più, e so che sei anche nel mio non scrivere, sei il senso e la mancanza di senso, la rabbia e l’allegria e la malinconia e l’immensa dolcezza e questa ferita che non è una ferita, è una voragine, ed è incomprensibile, ma non vuole saperne lo stesso di chiudersi. Ma niente, ogni tanto provo a spiegare le ali, così, sai, giusto per fare un po’ di esercizio. Comunque, camminare nel tuo giardino è davvero un privilegio. Solo che qualche volta, quando le finestre sono chiuse, eppure un soffio leggero viene da chissà dove, penso che tu sei l’unico che possa venir fuori persino dal fondo dell’oceano, e ricominciare a volare.

Robin’s Monday – Piccole Gemme 3

L’intervista di Ray Martin in Australia per la presentazione di The Birdcage (Piume di Struzzo, 1996).  Il film è tra l’altro uno dei miei preferiti e se volete trovate la mia recensione qui. Robin ironizza gentilmente sulla scenografia dello studio “è un piacere essere intervistato sopra una meridiana“, dopodiché “parla di Hollywood, politica americana, scuola e qualunque altra cosa che gli passi per quella testa bizzarra e straordinaria” (è il commento che accompagna il video).  Il jet lag, i canguri e la famiglia sono materiali duttili che plasma a suo piacimento, talvolta lasciandosi andare alle sue capacità istrioniche (la sua imitazione dell’accento scozzese-australiano è da antologia), altre con quel tono dolcemente stupito, quasi sommesso, con cui pare sorprendersi lui per primo di ciò che osserva e riporta, mette il dito su piaghe dolorosissime ma lo fa con tale gentilezza che è come se ti mostrasse la ferita che non sapevi di avere e nello stesso tempo maneggiasse con disinvolta maestria gli strumenti per cicatrizzarla.

Ray Martin’s interview to Robin Williams, in Australia to present The Birdcage (1996). Robin makes gently makes fun of the tv studio setting (“it’s nice to do an interview on a sundial“), and then “talks about Hollywood, American politics, school and whatever else crosses his bizarre and amazing mind” (it’s the comment under the video). Jet-lag, kangaroos, family, are all ductile materials he models at leisure, sometimes giving free rein to his histrionic skills (his impression of a Scottish-Australian accent is classic), other times in that sweet, surprised way, almost in an undertone, as if he was astonished himself at what he sees and reports, he puts his finger on very, very sore sports, but so gently that it’s as it he showed you the wound you didn’t know you had, and at the same time handled with nonchalant mastery the instrument to heal it.

32. The Birdcage (Piume di Struzzo)

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Adoro questo film. Devo averlo già detto in qualche precedente occasione, ma siccome l’ho rivisto ancora una volta, adesso lo adoro ancora di più (mi succede sempre così). Gli attori, il regista (Mike Nichols), gli sceneggiatori (l’autrice dei dialoghi è Elaine May, ma si è basata, oltre che sulla pièce di Jean Poiret, anche sulle precedenti riduzioni cinematografiche di Francis Veber, Édouard Molinaro e Marcello Danon) sono tutti meravigliosi, veramente, un cast di mostri di bravura capaci di trascinarci in un mondo “altro” eppure così incredibilmente, spassosamente “nostro”. Per me il film più divertente in assoluto in cui Robin Williams abbia partecipato. Il che è tutto dire, certo, anche se come comico il meglio per quanto mi riguarda lo ha sempre dato negli spettacoli dal vivo che si preparava da sé, più che nei film. I film li amo prevalentemente per altre ragioni. E questo è un concentrato di quello che me lo rende caro. In particolare, lo humour usato per mostrare che al di là delle differenze tra le persone (sempre rispettate), ci uniscono le relazioni, i sentimenti, il nostro essere imperfetti che se lo accettiamo, è anche ciò che ci permette di essere umani, nel senso buono, verso noi stessi e verso gli altri.
Armand Goldman (Robin Williams), titolare e direttore artistico di un locale di spettacoli per gay, vive da oltre vent’anni con Albert, una drag queen (Nathan Lane). La loro relazione, apparentemente tempestosa per i capricci di Albert, in realtà è stata sempre solidissima ad eccezione di un episodio, un’incursione di Armand nel mondo etero, una notte con una ragazza, Katherine, che recitava in uno spettacolo con lui, all’epoca stella del cabaret. Da quella brevissima “avventura” è nato un figlio, Val. Nel film si accenna solo al fatto che una certa quantità di denaro è passata all’epoca dalle mani di Armand a quelle di Katherine, che vi si è costruita un’attività di successo. Non viene specificato, ma si intuisce facilmente che i soldi erano serviti per indurla a tenere il bambino (che lei non aveva nessunissima intenzione di allevare, avendo ben altre idee per la testa) e affidarlo poi ad Armand e Albert. L’avevo detto, eh, che questo film è un bel po’ avanti, certo, all’epoca non si pensava all’inseminazione artificiale, ma per il resto potrebbe essere stato fatto non tanto oggi, quanto tra cinque, dieci anni. Val sa di Katherine, ma per lui sua madre è sempre stata Albert, anche se la chiama “zia”. Il problema è che nel frattempo Val si è innamorato di Barbara (Calista Flockhart), figlia di un senatore estremamente conservatore, Kevin Keeley (il fenomenale Gene Hackman), co-fondatore di una Lega per l’Ordine Morale. Barbara ha detto a suo padre che il padre di Val è un attaché dell’Ambasciata greca e la madre una casalinga. Quando l’altro fondatore della Lega muore tra le braccia di una prostituta nera minorenne, la moglie di Keeley (un’altrettanto strepitosa Dianne Wiest), suggerisce che un matrimonio tradizionale con il rampollo di una famiglia della buona società potrebbe rimediare agli effetti dello scandalo. Così l’incarnazione della perfetta famigliola americana parte verso South Beach (ignorando platealmente di che tipo di quartiere si tratti) e Val scongiura suo padre di reggergli il gioco. Cosa potrebbe fare il povero Armand, pur riluttante, di fronte alla disperata richiesta del figlio? Una frenetica corsa a togliere dalla casa qualunque cosa che possa destare sospetti (praticamente tutto, tanto da farne apprezzare, dai due malcapitati genitori di Barbara, l’austerità quasi monacale). Un tentativo di mandar via Albert per il tempo della visita, che sfocia, da parte dell’apparentemente duro Armand, in una delle dichiarazioni d’amore per me più belle che riesca a immaginare. Ovviamente Albert resta, benché intanto anche a Katherine sia stato chiesto di venire per l’occasione. Ma quando lei rimane imbottigliata nel traffico, Albert si presenta travestito da donna e conquista il senatore con i suoi modi da perfetta padrona di casa…