Basta un’influenza a scompigliare un po’ tutto. Sono dieci giorni che non scrivo sul blog e non mi ero resa conto che fosse passato tanto tempo. Quando avevo la febbre e gli altri spiacevoli effetti dell’influenza, ero troppo a terra per lavorare o fare altro che dormire e sonnecchiando guardarmi passivamente qualche filmetto carino ma poco impegnativo (la cosa migliore che ho visto? Kate & Leopold, peraltro era la seconda volta).
Quando ho cominciato a star meglio (in un giorno o due, poi, mica una vita), mi sono messa a scrivere e scrivere. Ho tra l’altro editato ancora un po’ il vecchio romanzo che a suo tempo avevo postato anche qui. Un romanzo di persone colte, mi è stato fatto notare. E di persone molto ragionevoli (come io cerco di essere, ovviamente senza riuscirci bene come loro, che sono pur sempre personaggi, benché voglia loro bene come se fossero persone). La cosiddetta “realtà” di cui si parla (che è poi la realtà nel suo aspetto peggiore, non l’unico) ci entra quasi “di straforo”, attraverso il lavoro della protagonista. In effetti, sì, parlo di persone per le quali la cultura è vita, respiro, movimento. Persone che esistono, e che non stanno nei salotti a guardare il mondo da dentro la loro torre d’avorio, ma che amano, soffrono perdite, tradiscono e lavorano e si contraddicono esattamente come gli altri, forse con un po’ di consapevolezza in più, perché hanno qualche strumento in più per leggere sé stessi e ciò che li circonda. Non sono “lontani dalla gente”, sono “gente” anche loro, anche se non si urlano in faccia, non bestemmiano, dicono poche parolacce, si parlano cercando di comunicare in modo per quanto possibile chiaro e onesto.
Perché io credo che la strada sia questa. L’unica strada per la libertà, per venire a patti con la finitezza della vita, per sopportare il dolore e vivere pienamente la bellezza e la gioia. È la mia utopia, ma è anche quello a cui sono arrivata al termine di una ricerca non facile e fatta interamente sulla mia pelle. Di cose brutte potrei parlarne, eccome. Ho preferito dare spazio a quello che secondo me può rendere la vita migliore, perché i mostri che sono dentro di noi sono già in molti a descriverli, e molto meglio di me.
Sono andata avanti anche col nuovo libro, che c’entra col femminismo, con l’ambiente, con i rapporti tra uomini e donne, con il viaggio e la conquista e anche con le trappole del mondo cosiddetto “civilizzato”, ma sempre per una via (tortuosa e se vogliamo anche molto avventurosa e irta di ostacoli) tutta sua.
Ho iniziato una lista di cose da fare “prima di morire”, o piuttosto diciamo nei prossimi dieci anni, possibilmente anche meno. Al momento sono a tre: provare il deltaplano, nuotare con i delfini e vedere i parchi della California (percorrendo, prima, la rotta del Corps of Discovery almeno dal Dakota in poi). Forse arriverò a dieci, o a sette, o mi fermerò qui. Sono tutti numeri magici. Il mondo possiede davvero una stupefacente bellezza, a cui diamo poco valore per via del fatto che siamo mortali, ma potremmo ribaltare la prospettiva e pensare che questo ci dovrebbe “costringere” a dare valore soltanto a ciò che davvero ne ha, ad appassionarci profondamente e a vivere e morire per l’intensità di quello che facciamo e delle emozioni che proviamo. E sì, sto pensando tra l’altro a Daniele Nardi, che non conoscevo e che aveva una passione che io non ho, ma la cui vicenda mi ha commossa per un aspetto in cui spero un giorno di poter dire di riconoscermi: decidere che vuoi fare una cosa, prendere e andare, perché nessuno può farla al posto tuo e perché vivere è questo, non c’è altro modo, il resto è restare fermi in un posto dove qualcuno ti ha messo a tua insaputa. e rassegnarsi a star lì fino a quando quello stesso qualcuno, sempre a tua insaputa, ti sposterà.