Long time no hear

È trascorso oltre un mese dal mio ultimo post. Un tempo notevolmente lungo, benché poco dopo l’inizio della vita del blog sia stata quasi due anni senza scrivere niente. Nel frattempo sono successe molte cose, belle e brutte, alcune molto brutte. Altre molto belle. Ma mi sono presa una lunga pausa dalla scrittura, non del tutto voluta. Tutta la scrittura, non solo qui: non una riga, né in prosa, né in versi. È come se, da una parte, la vena si fosse inaridita; dall’altra, stare senza scrivere mi crea talvolta un malessere quasi fisico, eppure non sempre riesco a vedere il senso di farlo. Ma passerà. Credo.

Nell’orrida vicenda di Quargnento, di cui non voglio neanche parlare, è morto tra gli altri un caro amico di mio marito, che veniva in campagna nello stesso posto dove andiamo noi. Una persona d’oro, padre di una bimba spericolata e simpaticissima che adorava suo padre. E che l’ha perduto a causa di uno totalmente vuoto, che sembra incapace non dico di tener conto degli altri, ma anche solo di vederli, di accorgersi che esistono.

Poi ci sono le alluvioni nella zona, il crollo del muro del giardino, la ristrutturazione della casa dove, con un po’ di fortuna, vorremmo andare a vivere in un futuro non troppo lontano,  e di cui mi sto innamorando sempre più, dedicandole cure, attenzioni, tempo ed energie, ma che sta prosciugando le nostre risorse; e ancora, tutte le paure e le gioie legate ai figli e al resto della famiglia “allargata”.

E poi c’è il lavoro, gli alti e bassi, fasi di “stanca”, con tutte le preoccupazioni che comportano, finanziarie e di altra natura, e le fasi di improvvisa esplosione, quando tutto il mondo sembra aver bisogno di te (quasi in senso letterale, visto che ho ricevuto dagli Stati Uniti più lavoro in un mese di quanto me ne fosse arrivato nei precedenti quindici anni) e non riesci nemmeno a respirare. Nel frattempo, sono anche riuscita a ottenere la certificazione ISO. Sì, di pentole sul fuoco ne metto comunque sempre tante, e di solito riesco a non bruciare niente, o quasi.

Negli ultimi giorni, sono riuscita a trovare abbastanza tempo libero da guardarmi tutte le prime quattro stagioni di Downton Abbey, una serie che non avevo mai visto, ed è stato quasi un colpo di fulmine (a scoppio leggermente ritardato, ma non troppo). Ora devo recuperare le ultime due, ma devo trovarle in inglese. Il cofanetto delle prime quattro contiene alcuni episodi in italiano e inglese (con sottotitoli solo in italiano) e alcuni, inspiegabilmente, in italiano e russo. Da traduttrice, capisco bene le difficoltà di doppiaggio e sottotitolazione e capisco che è stato fatto un ottimo lavoro. Resta il fatto che si perde moltissimo. In alcuni casi, con la lingua e la voce sembra cambiare addirittura il carattere dei personaggi, persino l’atmosfera stessa, che dopotutto, è una parte tutt’altro che secondaria del fascino della serie. Comunque, se riesco ne parlerò magari nel prossimo post. Non vorrei passasse di nuovo così tanto tempo tra uno e l’altro.

Però a qualcosa bisogna rinunciare, e per un po’ è stata la scrittura. Spero non sia per molto.

La mia misantropia – 2 (breve spiegazione)

orso-png (1)immagine presa da Google

Dicevo ieri che la mia misantropia sta raggiungendo livelli critici (avrei anche potuto dire drammatici). Ho avuto questa illuminazione durante una telefonata (svoltasi in mia presenza ma in cui io non ero nemmeno un’interlocutrice), perché dopo i primi dieci secondi avevo voglia di dire “ok, ha chiesto come stiamo, abbiamo risposto, basta, che altro c’è da dire? Lasciatemi in pace!”.

Da lì, ho cominciato a rimuginare come al solito: ok, capita a tutti di essere insofferenti se si viene interrotti mentre si lavora, si scrive o si svolge comunque un’attività che richiede concentrazione.

Complice una chiacchierata con una delle due, tre persone al massimo con cui riesco a stare al telefono per (parecchio) più di dieci minuti di fila, ho elaborato meglio quella sensazione di fastidio.

Insomma, c’è una parte di me che invidia chi ha spesso persone a pranzo e a cena, vede gli amici in giro, organizza feste. Penso sempre di invitare almeno gli amici e i parenti più stretti, poi non lo faccio mai. Allora mi è venuto da chiedermi: visto che quello che veramente si vuole, si trova sempre il tempo per farlo, forse non voglio così tanto vedere persone (a parte sempre quelle due o tre). Tendo a essere insofferente, a infastidirmi con troppa facilità.

La verità, e del resto è un po’ che lo so, è che sono gelosissima della mia solitudine, probabilmente perché sono gelosissima della mia libertà. Tutti i miei interessi, al di là delle persone che davvero amo, sono interessi solitari.

Mi piace molto incontrare persone, in realtà, ma faccio fatica ad approfondire e tendo comunque a ritrami nel “nido” per gran parte delle mie giornate.

Questo va bene? Sono semplicemente fatta così ed è venuto il momento di accettarlo? Oppure invece, visto che ne parlo e che avverto un disagio, vuol dire che devo dare più retta alla parte “sociale” e meno a quella “orso”? Solo il tempo lo dirà, forse.

Momenti preziosi

Per tre giorni, in attesa dell’intervento, ho dato il peggio di me: rabbia, crisi isteriche, malumore diffuso e temporali sparsi con occasionali fenomeni di instabilità anche intensa e temperature decisamente al di sopra delle medie stagionali.

Venerdì mattina mi sono ricoverata, e da quel momento basta, una tranquillità quasi zen. Mi hanno chiamata alle sette del mattino, ma siccome ero l’ultima, ho aspettato fino a mezzogiorno. Nel frattempo mi hanno dato la stanza: a quel punto ero ricoverata e non avrei più potuto stare in sala d’attesa con mio marito, ma d’altra parte lui non poteva stare in stanza con me. A questo ho fatto qualche obiezione, ma sempre con calma fermezza, diciamo. Ho fatto presente all’infermiera, peraltro molto gentile, che se ero l’ultima e dovevo aspettare presumibilmente due ore (che si sono rivelate di fatto cinque), rimanere lì da sola con mio marito a venti metri di distanza ma irraggiungibile e invisibile non era il modo migliore di affrontare serenamente l’attesa. Siamo arrivate a un onorevole compromesso, che mi ha consentito di stare un po’ in compagnia e trascorrere il  resto del tempo leggendo beatamente.

Finalmente mi hanno portata giù per l’anestesia. Ho pensato alle case di San Francisco, alle sue colline, al suo oceano, che a volte ha il colore del Mediterraneo, altre quello della libertà, ho pensato a un certo sorriso, mi sono sentita dare della giovane donna due volte, mi hanno vista sorridente e predetto che non avrei avuto problemi. La previsione si è rivelata esatta. Mi sono addormentata al suono dei Coldplay e mi sono risvegliata pacificamente. Niente freddo, nausea, dolore, dopo pochissimo tempo giravo per i corridoi sotto lo sguardo esterrefatto dei pazienti e quello orgoglioso di un’infermiera. Roba da matti, ha commentato una parente di un altro ricoverato. No, roba da chirurgia, ha risposto l’infermiera sorridendo. Mi sono sentita molto contenta di me, lo confesso. E forse, tutto questo ha accelerato la guarigione, perché il morale ha influito positivamente sul fisico.

Ho una finestra vista mare, da cui, anzi, si gode un panorama che comprende anche una bella fetta della città, leggo, scrivo, mi riposo e sono più che moderatamente felice.

Nel frattempo, mia sorella ha ritirato per me un secondo premio e molti applausi e complimenti, (più un cavallino d’argento) a Voghera, per la poesia Jazz lento, e anche questo va bene.

Ieri sera ho mangiato, stamattina ho fatto una colazione quasi abbondante, avrebbe dovuto esserci il temporale, invece c’era il sole e il mare era davvero molto blu. Più tardi è arrivata anche la cortina di pioggia, accompagnata da un paio di lampi e un tuono poco convinto. Ho pensato a Delerm e ai suoi Piccoli piaceri della vita. E riflettevo, senza grande originalità, certo, e non per la prima volta, ma con una certa maggiore intensità, se lo sapessero, tutti quelli che vivono di rabbia e di paura, di minacce e di nemici, che vivere bene, oltre che più bello, non è poi così difficile…

Addio al sassofono

Un momento davvero intensissimo sotto ogni punto di vista. Tippete ancora manca, specialmente in certi momenti, quando gli avrei preparato da mangiare, o quando si sentono certi rumori e ci voltiamo di scatto, quasi aspettandoci davvero di vederlo saltar giù da una sedia, o saltarci sopra, muovendo nel processo tutto quello che può esserci intorno.

I premi letterari sono soddisfazioni enormi, viaggi bellissimi e sfiancanti, desideri che si realizzano e desideri nuovi.

Col figlio “piccolo” si parla, lo si tiene tra le braccia, si sta a distanza quando è il caso, si protegge e si lascia andare, si culla quando sembra davvero più “bambino” e si accompagnano i momenti in cui la crescita diventa evidente tutt’a un tratto e intravedi l’uomo che speri diventerà, difficile, inquieto e splendido.

Col figlio grande si parla, si ascoltano soprattutto i suoi silenzi, il non detto, si guardano i gesti, le cose pratiche che per lui sostituiscono quasi sempre le parole, si cerca un raro sorriso, la traccia di un dolore che forse non c’è, o forse tiene dentro.

Negli ultimi dieci giorni ho stralavorato, a compensare il lavoro che era mancato per quasi un mese, tra ricoveri e altro. Aspetto quella piccola operazione, e l’attesa, si sa, è snervante. Mi sento spesso più debole, come se l’età che prima non contava, se non molto poco, adesso si prendesse il suo spazio, ho meno energia, giornate meno lunghe.

Però scrivo, in questi due ultimi giorni, perché per una settimana è stato impossibile, non riuscivo neanche a vedere dieci minuti di film, niente. Ma adesso scrivo, tanto, e in questi momenti c’è una magnifica sensazione di fluidità, come se tutto andasse come deve andare, tutto si trovasse nel posto dove deve essere, almeno interiormente, che poi il mondo è un casino ma questo lo sappiamo.

E poi ci sei tu, che racchiudi ogni assenza e ogni presenza, ogni poesia e ogni piccolo passo, ogni stanchezza e ogni parola, ogni paura e ogni momento felice, la felicità dell’inizio e l’addio di un amico e di tutto quello che si lascia indietro, tutto in un unico sguardo, e in quel brivido che era quasi scomparso dalle mie labbra, e che ho ritrovato stasera. Un tuo sguardo, e io mi sento come se mi fossi persa e ritrovata nello stesso momento. Com’è bello guardarti. Perché a volte vorrei avere il coraggio di non farlo? Lo so, a volte costa fatica, ma il mio piccolo universo è tutto nel tuo sguardo.

Bivio

Mi sento a un bivio, di nuovo. Non è una sensazione sgradevole, tutt’altro, è che non so bene che farne.

Come scrivevo qualche giorno fa, sto facendo quello che amo e posso dire di essere felice, non nel senso che vada sempre tutto bene (mi preoccuperei… 🙂 ) ma nel senso che sento che sono nel posto giusto, al momento giusto, e mi piace essere quella che sono (quasi sempre). Questo mi permette di reggere la barca anche quando arrivano le tempeste, perché arrivano, mica no.

Eppure non riesco del tutto a smettere di proiettarmi in avanti, sarà una vecchia abitudine dura da abbandonare, sarà che ai desideri e ai sogni comunque ci tengo, e benché a volte vorrei spegnere per un momento almeno l’interruttore del cervello, tengo anche ai miei pensieri. Sono qui, vivo l’attimo, sento e amo profondamente quello che c’è, ma anche quello che sarà ha un fascino quasi irresistibile.

Mi basta un’email, l’ipotesi astratta di partecipare a un progetto che mi piacerebbe, e d’improvviso mi ricordo che sì, adesso sto portando a termine quella che è, in questo tempo, una delle cose più importanti della mia vita, e portarla a termine è tanto impegnativo quanto essenziale. E dopo? Ho un lavoro che ho amato moltissimo ma che, come molti amori messi alla prova della quotidianità, sta mostrando segni di logoramento. Vorrei vivere scrivendo ma la parte realista di me dice che è piuttosto improbabile. So che continuerò a dedicarmi a progetti legati a Robin perché non potrei fare altrimenti. Ma per il resto… Così torno a chiedermi cosa voglio fare da grande, pur essendo più che grande da qualche tempo, ma se è vero che si invecchia quando si smette di meravigliarsi e di sognare, beh, io allora ho appena iniziato a muovere i primi passi.

Da una parte sento che le cose succederanno quando sarò pronta perché succedano, mi faccio meno ansie per il fatto di non pianificare, progettare, organizzare, tutte attività che sono scarsamente nelle mie corde, anche se qualche volta sono costretta a dedicarmici. Dall’altra, avendo sempre pensato che possiamo fare molto per rendere la nostra vita il più vicino possibile a quello che vogliamo, non posso tirarmi indietro del tutto e lasciar fare unicamente all’universo e alla sua disponibilità a congiurare perché i miei desideri si realizzino.

Siccome mi succede spesso di trovare nelle parole degli altri il mio pensiero e persino il mio cuore, ho deciso di fare così: prendere i primi libri che mi sono venuti in mente, aprirli a caso e vedere cosa mi dicono.

Lo sai quanto godo di non dover più scrivere una parola? E’ davvero meraviglioso. Nella vita, se hai l’occasione di non ripeterti, prendila. (Tiziano Terzani, La fine è il mio inizio, p. 179).

Sì, in effetti… è l’aspetto del dovere e del non ripetersi che fa presa su di me. Scrivo perché adoro farlo e per quanto posso cerco di sperimentare cose nuove nella mia vita, se non altro di imparare una cosa nuova ogni giorno.

Le Merry Maids, nei pressi di Penzance, in Cornovaglia, sono un cerchio di diciannove grosse pietre, forse un’antica area sacrificale o chissà cos’altro, dove si svolge ogni anno il Gorseld, il raduno dei bardi che cercano di ravvivare la memoria del retaggio celta. Fra queste pietre si sente certo il rispetto per l’oscuro passato svanito, per gli antenati che sono sempre antenati comuni, dell’umanità e della civiltà. Ma questa reverenza, questo senso del mistero riguardano la semplicità della vita che trascorre e sparisce, le pietre e le mucche che pascolano mansuete tra di esse, col loro segreto della vita animale. Possiamo e dobbiamo avere pietas per i druidi e certo ancora di più per le loro vittime rituali, perché erano poveri diavoli come noi e stavano certo peggio di noi. La moda della tradizione celta si involgarisce invece talora nell’esoterismo iniziatico, in un neopaganesimo posticcio, nella compiaciuta superstizione. Quel culto dell’arcano, della magia e delle origini è sempre una pacchianeria sofisticata, come ogni civetteria irrazionalistica. Quanto più profondo è il vecchio detto cornish sulle tre cose più belle del mondo: una donna con un bambino, una barca con le vele spiegate e un campo di grano che ondeggia nel vento. (Claudio Magris, L’infinito viaggiare, p. 44).

Anche questa ha molto da dire: per quanto l’irrazionale mi affascini, il mio senso del mistero è molto legato, credo, al mio amore per la terra, il mare, l’umanità forse anche (per quanto su questo aspetto ho forse margini di miglioramento). I riti pagani non mi attirano molto, e trovo il senso della vita più di tutto nel fatto di viverla.Non  che questo mi aiuti particolarmente nel decidere a che cosa dedicarmi, ma forse devo leggere meglio tra le righe.

Piccola rosa, rosa piccolina / a volte / minuta e nuda / sembra / che tu mi stia in una mano / che possa rinchiuderti in essa / e portarti alla bocca, / ma d’improvviso / i miei piedi toccano i tuoi piedi e la mia bocca le tue labbra / sei cresciuta / le tue spalle salgono come due colline / i tuoi seni si muovono sul mio petto, / il mio braccio riesce appena a circondare la sottile / linea di luna nuova che ha la tua cintura: / nell’amore come acqua di mare ti sei scatenata: /misuro appena gli occhi più ampi del cielo / e mi chino sulla tua bocca per baciare la terra. (Pablo Neruda, In te la terra, in Poesie d’amore, p. 84).

Ecco, questa in qualche modo completa quella precedente: anche l’amore è espressione in buona parte di amore per la terra, unirsi a un’altra persona (o un’altra anima) significa far diventare concreto quel desiderio di terra e di cielo, diventare tutt’uno con essi.

Ma ancora ho l’aurora impigliata in ogni tempia (Pablo Neruda, Bruna, la baciatrice, in Crepuscolario, p. 37). Tutto finirà, un giorno, le parole, le canzoni, i baci, la vita. Ma fino a quando l’aurora resta impigliata alle nostre tempie, il giorno ancora ci aspetta.

Dunque: meno senso del dovere, più passione, più amore, un forte legame con la terra (intesa come pianeta, con tutto quello che contiene), sperimentare qualcosa di nuovo. Beh, sono dei buoni punti di partenza. Sicuramente da qui troverò il modo di andare avanti.

UN LEONE A COLAZIONE – Storie intorno all’adozione

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Una cosa non capisco: questa nostra società che ci piace tanto poco è il risultato del modo in cui ci hanno cresciuti i nostri genitori, nonni e bisnonni e vari antenati ai quali possiamo risalire. Perché ci intestardiamo a credere che i buoni, vecchi valori tradizionali fossero meglio, che ci fosse più umanità, che i tempi irrimediabilmente peggiorino? Tralasciamo il fatto che i nostri ascendenti vicini e lontani hanno causato o partecipato a un bel numero di guerre, alcune delle quali di crudeltà inusitata; e tralasciamo anche le dittature che hanno funestato la vita di alcuni, ma nelle quali tanti altri hanno vissuto tranquilli come i famosi topi nel formaggio. A parte questo, dicevo, dobbiamo alla indiscussa autorità della cinghia un bel numero di danni, e altri danni li dobbiamo a quel principio per cui quello che fai bene è tuo dovere, ti punisco per quello che fai male, per cui non aspettarti lodi, mai.

Ci mancano dei punti fermi, questo è vero, e quindi non li sappiamo trasmettere. Ci pensavo in questi giorni perché non riesco a trasmettere ai miei figli (l’Orso Grande in particolare, perché la Bertuccia Piccola queste cose le ha dentro, per fortuna sua) l’impegno, il tempo da dedicare alle cose, la voglia di fare, ma prima di tutto questo l’entusiasmo, da cui nasce tutto il resto. E viceversa, veramente, perché è un circolo virtuoso, se una cosa ti piace le dedichi tempo e impegno, e quel tempo, quell’impegno, trasformano il piacere in passione, in entusiasmo. L’atarassia io non la concepisco, forse già l’ho detto, senza passione non potrei ma soprattutto non vorrei vivere. In pratica, so che il modo in cui si educava ai beati tempi era tutt’altro che perfetto, e non ho ancora trovato una valida alternativa.

Penso che sia questa una possibile causa comune del nostro malessere, in realtà. Siamo consapevoli che “questa è casa mia e qui comando io”, “ti ho fatto e ti disfo” e i vari “sguardi che non ammettono repliche”, prima ancora di essere non più proponibili, erano sbagliati in partenza. Li abbiamo contestati, discussi, sezionati e rigettati, e adesso ci tocca trovare qualcosa di meglio. Che è una bella fatica. Qui torniamo al punto di partenza: senza fatica, senza impegno, senza tempo dedicato, è possibile arrivare a qualcosa di buono?

Queste parole scrivevo ieri mattina, dopo una discussione di quelle toste (diciamo pure quasi un litigio) col figlio grande, con tanto di parole dure, da parte di uno e dell’altro. Ho pensato che quando sgridiamo un ragazzo adolescente o anche oltre (sui diciotto anni, poco più poco meno), lui/lei tende a mettersi sulle difensive e diventare aggressivo(a). Noi diamo la colpa all’età, alla fase particolare, gli ormoni, la crescita, e sarà tutto vero. Però mi sono resa conto che criticare è spesso più facile che trovare cose positive da dire, anche quando si è convinti che sottolineare il buono sia meglio che evidenziare ciò che non va. A me, almeno, succede. E ho riflettuto che non di rado siamo noi i primi a essere in certa misura aggressivi. E anche che spesso la nostra rabbia di adulti nasconde sia un dolore, sia un senso di inadeguatezza, e per questo non “funziona”. Perché forse, pensavo, gridiamo quando non riusciamo a farci ascoltare, quando, di fatto, ci sentiamo deboli.

Dopo quella “lite” qualcosa di positivo è scattato. In entrambi. E’ come se un piccolo pezzo di muro si fosse sgretolato. Mi sono un po’ lasciata andare, ho spiegato proprio questa mia difficoltà. Quando gli dico che buttano via la vita stando attaccati alla tv tutto il pomeriggio (sì, alla fine quasi sempre quello è l’oggetto del contendere), ho detto, non intendo che la buttano via in assoluto. Ma la vita è bellissima, qualche volta faticosa, dolorosa, difficile, ci sono cose che facciamo perché dobbiamo farle e non perché vogliamo, tutto vero. Ma  resta bellissima, se facciamo in modo che lo sia. E ho parlato, anche con loro, ma molto brevemente, due o tre frasi appena, di quelle mie idee che ho su entusiasmo, passione, fare cose con le proprie risorse.

Mentre lo dicevo a loro, ho sentito che ci credevo profondamente. E loro mi hanno ascoltato, e ho visto la loro espressione cambiare, aprirsi, e dopo Orsogrande ha cominciato a raccontarmi piccole cose, a interessarsi a quello che faccio. Granellini, ma ci sono. E in fondo, va detto anche, la lite era stata una lite tra genitori e figli, senza ulteriori qualificazioni, e anche questo è importante. Perché a volte ci si blocca al pensiero che loro sono adottati, hanno sofferto, che certe cose potrebbero prenderle male, che se gli dici… poi pensano… E invece la cosa bella è essere se stessi nelle risate, nelle arrabbiature, nella tristezza e nell’amore e loro lo sanno. E mi sono resa conto che anche quando mi sento un po’ goffa e penso che vorrei cambiare, poi in realtà dentro di me so che mi voglio bene, anche perché i miei principi sono realmente miei, e penso che sia vero per entrambi, come genitori, e che è quello l’importante. Anche se a volte non è facile comunicarli, ce li abbiamo dentro l’anima, e quindi non serve il “perché lo dico io”, ma serve il “perché è questo che migliora la tua vita e quella degli altri”. La strada è tutta da costruire, tra contestazioni, porticine che si aprono e si richiudono e poi si riaprono di nuovo. Si continua a cercare, che poi è l’essenza della vita, dopotutto, no?

Pensieri sulla vita (un po’ tristi ma…)

Ho messo insieme un po’ di pensieri e non so quanto nesso logico ci sia tra uno e l’altro. Diciamo che si sono presentati un po’ alla rinfusa, e alla  rinfusa ve li racconto.

Ieri mattina sono stata a un funerale. Un uomo giovane, padre di un bimbo piccolissimo. Una malattia che non perdona. Quelle cose che sappiamo che accadono e ogni volta vorremmo urlare che non dovrebbero succedere, che non è giusto, e ci ribelliamo, ma poi la vita non è giusta. Ci diciamo anche che questo dovrebbero spingerci a inseguire i sogni, a non avere paura, a non preoccuparci delle piccolezze, a ricordare le cose importanti. E già sappiamo che non lo faremo, o lo faremo in parte, perché non è vero che non curiamo le cose importanti, ma quest’uomo che è stato ricordato per il sorriso, per le mangiate con gli amici, per gli scherzi e la serietà sul lavoro, penso avesse capito che anche le piccolezze sono importanti. Vivere, va fatto col cuore, e col cuore ci arrabbiamo per i brutti voti a scuola, per la prima cotta non ricambiata, con il cuore soffriamo e siamo felici anche, a volte, per cose che poi non avrebbero tanta importanza, ma ce l’hanno perché sono nostre e finché siamo vivi anche le cose piccole ci toccano. La lavatrice che si guasta continuerà a renderci isterici anche se sappiamo che i problemi sono altri, una passeggiata in montagna o un’alba sul mare ci renderà felici anche se (o perché)  la vita finisce, ed è questo che rende importante viverla, davvero, questo può renderla non “giusta”, probabilmente, ma comunque “viva” in tutti i suoi piccoli istanti preziosi.

E mi chiedevo, allora… quando qualcuno muore, tutti noi cerchiamo, dopo il primo momento di lutto, di relegarlo in qualche angolo del cuore e della mente, ricordandolo tutto sommato sempre meno, solo occasionalmente, quando qualcosa, un odore, un sapore, un luogo, una frase ce lo riportano alla mente perché sono strettamente legati a quella persona. E’ questione di sopravvivenza in fondo, eppure mi chiedevo se nonostante le apparenze, non possa essere più di aiuto la memoria, invece. Scriverne, parlarne, insieme a mille altre cose, certo, perché non c’è dubbio che la vita debba andare avanti. Ma “avanti” è solo una direzione, quella direzione va riempita, di piante da coltivare, piatti da cucinare, bambini da portare e andare a riprendere all’asilo e poi a scuola e poi da accompagnare lungo la strada che prenderanno, amori di cui prendersi cura, lavori da fare, sogni da sognare. E memorie.

E qui vengo a un altro pensiero, chiedo scusa a chi pensa che l’accostamento sia inopportuno, o che le due cose siano troppo distanti per poterle accostare. Per me non lo sono. Perché semplicemente, gran parte di quello che ho imparato sulla vita, poco o tanto che sia, lo devo a lui.

Leggevo, sempre in questi giorni, che la figlia di Robin Williams non riesce ancora a rivedere i film del padre. Anche persone che non lo hanno conosciuto, ma che lo ammiravano, hanno la stessa difficoltà. Pensavo a come i suoi figli, tutti e tre, hanno vissuto la sua morte, il contrasto tra l’intensità fortissima del dolore che si legge nei loro gesti, nelle loro parole e nei loro silenzi, e la compostezza, mi viene da dire la consapevolezza che mostrano. Zelda ha la stessa dolcezza e la stessa luce negli occhi di suo padre e anche se non conosco né lei né i suoi fratelli, per quello che posso vedere del loro comportamento, che è sempre un aspetto limitato, certo, me ne rendo conto, però pensavo che per quello che traspare, la conferma migliore di tutto quello che continuo a credere della morte e soprattutto della vita di Robin Williams sono loro.

Se la nostalgia, il senso di mancanza e di perdita che quest’uomo ha lasciato sono così grandi in me e in milioni di altre persone che non lo conoscevano, cosa dovranno provare loro? Vorrei abbracciarla, abbracciarli tutti, stretti stretti, e per quanto sia difficilissimo e forse sbagliato entrare nel dolore degli altri, vorrei dire a lei, a loro, provate, provate a riguardarle, tutte le sue cose, l’inizio sarà duro, questo è certo, forse persino quasi insopportabile in alcuni momenti. Ma poi vedrete, sarà lui stesso a darvi conforto, perché è la cosa che lo ha reso così speciale, far stare bene gli altri. E’ come se tutto il suo lavoro fosse stato dedicato a darci un senso. Come esseri umani, intendo. Accipicchia se la sua vita è stata straordinaria e spettacolare, ma era la sua convinzione, la convinzione profonda, non solo a parole nella scena di un film, che tutti potessimo renderla tale, che ha cambiato la vita a così tante persone. E’ un pensiero un po’ confuso e il pensiero di una persona la cui vita si è intrecciata con la sua solo da molto, molto lontano. Però non so se sia vero solo per me, questo fatto magari un po’ paradossale, cioè che l’unico balsamo, l’unica cura possibile all’assenza sia viverla così a fondo da farla diventare presenza. Costante e incancellabile.

Ecco, se c’è un nesso è questo, questo amore che dura, perché davvero è la vita di una persona che dovrebbe restare nel nostro cuore, permetterci di non distaccarci, anzi, di entrare corpo e anima nel nostro dolore per poter poi superarlo non pensandoci di meno, ma pensandoci “meglio”, facendo sì che sia la costanza dell’amore e non l’affievolirsi del ricordo, a salvarci. Siamo tutti così abituati a pensare che dobbiamo “farcene una ragione”. Ma forse non è quello che davvero vogliamo, non è quello che ci fa stare bene. Può sembrare. Ma davvero poi è così? O il dolore non resta poi, silenzioso, a impregnare le nostre giornate senza che ne accorgiamo, proprio perché abbiamo tentato di scacciarlo?

Oh, io lo so che il mio è un amore ideale, quasi “letterario”, certo scriverne lo ha cambiato, e lo ha cambiato scriverne “in pubblico”. Immagino sia un po’ come quando uno deve fare leva sui propri sentimenti personali per rappresentare un’emozione di fronte a una telecamera o su un palcoscenico.

Quindi, si potrebbe dire, non è la stessa cosa.

Chi mi conosce e mi vuole bene però suggeriva, all’inizio, di pensarci meno, di non guardarli, i suoi film e i suoi spettacoli, le sue interviste, din non leggere gli articoli che lo riguardavano, perché sembrava che mi facessero stare più male. E io avevo dei dubbi, ma testardamente ho continuato, perché in quel male volevo immergermici, non per masochismo, anzi, perché in qualche modo sentivo dentro di me che era la cosa più “viva” che avessi. Perché la mia paura più grande era proprio che certe cose sbiadissero. E per questo, in gran parte scrivo e ho scoperto che sono molto più felice, oggi. Come dicevo qualche giorno fa, felicità significa per me prendere tutto quello che abbiamo avuto, che abbiamo, che siamo, tutto il nostro tempo, nel bene e nel male, e farne consapevolezza, capacità di essere noi stessi in ogni momento. Inutile dire che questo è stato uno degli insegnamenti più preziosi che abbia preso da lui.

E allora mi chiedo se dal momento che il dolore più grande lo proviamo per chi abbiamo amato di più, non sia proprio tenere ostinatamente quell’amore molto, molto presente in ogni aspetto della nostra vita, la cosa che può, alla fine, restituirci il senso.

[ho tolto il video perché non era quello giusto, non trovo quello di Mork in Wonderland, purtroppo, da cui è tratta questa scena]

Orson: Mork, I know this may be painful, but tell me exactly how you felt when Mandy passed on. (Mork, so che può essere doloroso, ma dimmi esattamente cosa hai provato quando Mandy   è morta)  [Nota: nella puntata Mork rimpiccioliva fino a trovarsi in una specie di mondo parallelo lillipuziano in cui ritrovava personaggi molto simili a coloro che conosceva, “miniaturizzati” e con nomi leggermente diversi]

Mork: Hm. Well I felt anger at first and anguish and a sense of deep loneliness. (Mmh, ecco, ho provato rabbia all’inizio, poi angoscia, e un profondo senso di solitudine).

Orson: I can’t even fully comprehend one emotion. All those emotions at once. It must cause insanity. [Non riesco a comprendere appieno neppure un’emozione alla volta. Tutte queste emozioni insieme, dev’essere una cosa da impazzire).

Mork Well, it does at first, sir. Then after you have time to think, you realize the good side. You realize that love can extend beyond universes and even beyond death. Till next week, sir. Nanu. (Beh, è così in un primo momento, signore, poi, dopo che hai avuto tempo di pensarci, cominci a vedere l’aspetto positivo. Ti rendi conto che l’amore può estendersi oltre gli universi e persino oltre la morte. Alla settimana prossima, signore. Na-nu).

 

Spiedini di porri e pancetta

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L’altra volta ho visto che gli spiedini di peperoni vi sono piaciuti… questi sono ancora più semplici, basta sbollentare i porri in acqua non salata per pochi minuti, tagliarli a rondelle dello spessore di 1 cm circa, arrotolarci intorno una fetta di pancetta (considerate 2-3 porri e circe 150 g di pancetta per 4 persone), poi avvolgerci ancora una foglia d’alloro, chiudere con gli stecchini e informare a 180°, direi che il tempo è circa 10 minuti, comunque fino a che la pancetta risulta croccante.

Due supereroi col raffreddore

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Nevica. Fiocchi lenti, senza grazia, appesantiti da un residuo di pioggia. I musi dei nostri due bambini sono appiccicati ai vetri della macchina con avida meraviglia. E sì che glielo avevamo detto, che a Genova nevicava. Ma in Brasile – 34-36 gradi all’ombra, e una temperatura percepita di 40, un paio di giorni di pioggia fina dimenticati, sommersi da due mesi di sole spietato – era stato difficile per loro crederci. “Nevica nada”, dicevano. Ossia: “non nevica no, non è possibile”. Forse si aggrappavano all’idea che per quanto diversa, l’Italia non poteva essere un mondo agli antipodi, dove l’estate era inverno e l’inverno era un inverno vero, con la pioggia, il freddo e quella strana cosa bianca che poteva sembrare polistirolo, ma a toccarla ti gelava le mani davvero. Che poi in effetti anche a genova nevica di rado. Ma tant’è…

Non so com’è stato, a dire la verità, che a un certo punto si sono abituati ad avere freddo. Forse pensavano, all’inizio, che dovesse essere una specie di inatteso calo della temperatura fuori stagione, o forse credevano di risvegliarsi da un sogno e ritrovarsi in estate, finché a un certo punto hanno realizzato che non stavano dormendo e che l’estate tardava un po’ troppo a venire. O forse è stato quando il più grande, che pensava di essere Ben Ten (personaggio di moda all’epoca sia in Brasile che in Italia, a ridimensionare le distanze), ha improvvisamente dovuto fare i conti con la dura realtà che anche i supereroi possono prendersi il raffreddore.

Nel lungo percorso che va dalla domanda di adozione al momento in cui finalmente incontri i tuoi figli, ti preparano ad affrontare le loro storie drammatiche, il loro dolore, il possibile rifiuto dei primi giorni, la loro aggressività, le tue paure, il tuo senso di inadeguatezza, la fatica di dover essere “l’adulto” e prendere sulle tue spalle tutto quello che loro vogliono scaricarci. Ma c’è sempre qualcosa che ti spiazza, magari la più banale. Per esempio, questa lunaticità termica, questa meteorologizzazione dei sentimenti. Ieri a 10 gradi se ne stavano in canottiera e senza calze, oggi con 26 gradi hanno freddo e chiedono una coperta in più nel letto. E tu capisci che ha qualcosa a che fare con il loro cuore, con la paura e con l’irrequietezza, con l’abbandono e la difficoltà di avere fiducia. O almeno pensi che sia così. E con questo? Cosa fai allora? Devi assecondarli? Devi pretendere che si adeguino alle condizioni climatiche reali? E fino a che punto? Se “il piccolo” si copre troppo perché vuole sentirsi protetto e tu lo costringi a scoprirsi perché fa caldo, gli togli la possibilità di decidere da sé quanto e come vuole lasciarsi andare? E se “il grande” si lamenta del caldo ma pretende lo stesso di tenere il copriletto di quando è arrivato perché magari lo considera rassicurante, gli togli sicurezza se metti quel copriletto a lavare? Magari uno li sgrida e li coccola e li punisce e li consola senza mai pensare alla loro storia, che è, credo, la scelta più giusta, perché un figlio è un figlio. Punto. Per il novanta per cento del tempo. E poi d’improvviso ti ricordi di quante ne ha passate, così, senza una ragione plausibile, solo perché si vergogna di aprire l’ombrello quando piove o al contrario, perché lo apre anche quando non piove, per ripararsi da chissà che cosa.

Questo piccolo frammento risale a un bel po’ di tempo fa, quasi all’inizio della nostra storia di famiglia a quattro. Da allora è caduta molta altra neve e molta acqua è passata sotto i ponti, a volte anche vere e proprie tempeste, in cui l’unica cosa da fare è cercare di tenere la barca in equilibrio tra le onde, aspettando il sole.