Invecchiare con grazia

Invecchiare con grazia. Già, è una parola. Ci si prova, in mancanza di valide alternative; ma resta il fatto che l’immagine di te che hai dentro resta più o meno uguale, ed è quella che ti aspetti di ritrovare nello specchio, mentre lo specchio racconta un’altra storia, e la faccia che ci vedi lì smette di corrispondere a quella che credevi di conoscere meglio di qualunque altra.

Si invecchia comunque, con grazia o senza. E la mareggiata mi lascia un sapore dolceamaro di scelte fatte per far piacere ad altri più che a me stessa. Scelte che qualche volta si sono rivelate comunque giuste, e qualche volta no. Qualche volta mi hanno comunque portato, attraverso percorsi tortuosi e nient’affatto geometrici, verso la realizzazione di un qualche tipo di sogno, e qualche volta no. È il momento per me di decidere davvero, una volta per tutte, quello che desidero fare, e imperniare la mia vita su quel desiderio.

In uno dei primi ricordi che ho, ero sotto un tavolo.

Credo fosse una stanza dei giochi. Da successivi racconti di mia madre, ho dedotto che forse si trattava del posto dove mi aveva portato una volta o due nel tentativo, del tutto fallimentare, di farmi avvicinare all’inglese prima del tempo. Era la lingua di mio padre, dopotutto. Ed era per questo che lo odiavo, ed è per questo che dopo l’ho tanto amato.

Ecco, penso di aver trascorso un sacco di tempo sotto qualche tavolo, nella mia vita. Di solito era un tavolo metaforico, ma la ragione era sempre la stessa: volevo giocare, volevo conoscere gli altri, volevo scrivere, volevo fare la regista, la professoressa, volevo lavorare all’estero, volevo, volevo, volevo; ma la paura è (quasi) sempre stata più forte.

All’asilo, nel pomeriggio, ci facevano stare con “le mani in seconda”, braccia appoggiate al banco e testa sulle braccia, per fare il riposino. Avevo tante cose da fare, da immaginare, ed ero lì costretta su quel maledetto banco a far finta di dormire.

Da lì mi è rimasta una fortissima resistenza a dormire al pomeriggio – non lo faccio mai, a meno che non sia completamente sfinita – e un odore di pasta al sugo di cui non ho mai più sentito l’uguale, ma che doveva essere davvero insopportabile. Qualche volta, mi pare di avvertire qualcosa di simile, ed è sempre in luoghi e momenti sgradevoli. Avrei preferito le madeleines.

Dovevo apparire davvero infelice, e mia madre decise di risolvere la situazione. Mi mandò a scuola in anticipo, a cinque anni, a costo di iscrivermi a una scuola privata, perché quella pubblica al tempo non accettava primini sotto i sei anni.

Di quella scuola non ho praticamente nessun ricordo, pare che tutto sommato mi trovassi abbastanza bene. Solo che ebbero la cattiva idea di dire a mia madre che ero un genio. Se lei aveva avuto qualche dubbio sul farmi proseguire le elementari lì, quella frase infelice lo eliminò definitivamente: non che ci credesse molto, a quella faccenda del genio, ma anche la vaga possibilità che io potessi essere non “normale” la metteva in ansia, e a ogni buon conto mi iscrisse alla scuola pubblica già dalla seconda. Che io fossi “normale” è sempre stato il suo più grande desiderio per me, qualunque cosa questo significhi.

Sarei diventata un genio, se lei non avesse avuto questa ansia?

Improbabile. Molto improbabile. Tanto per cominciare, sono sempre stata troppo dispersiva.

Eppure, il tarlo… sarei diventata una scrittrice all’età giusta? Avrei smesso di inseguire una passione nuova ogni venti giorni e mi sarei accasata con uno o due sogni grandi, ardenti abbastanza da costruirci intorno una vita?

Improbabile, molto improbabile, anche questo. Soprattutto visto come sono andate le cose nella parte successiva della mia infanzia. E comunque, è passato. Quello che conta è l’oggi.

Il fatto è che oggi mi ritrovo con un sacco di passioni, sogni, cose, pensieri, e quando credo di essermi messa in testa di realizzare davvero qualcosa, mi scontro con una sfilza di ormai. Parola che odio, ma tant’è. La faccia che conosco non lo direbbe, ma lo specchio, il malefico specchio dei miei stivali, qualche volta mi illude, dai, su, sei sempre tu, quella di sempre, più o meno, qualche segno, che sarà mai, e poi torna con la sua liscia superficie argentata e maligna a tormentarmi ancora con quella stessa parola sussurrata all’orecchio. Ormai

A volte, invece, ho ancora la sensazione di avere tutto il tempo davanti. Mentre ascolto la musica che ascoltavo anni fa, oppure quella che avrei dovuto ascoltare, ma scoprirla adesso è un privilegio, il privilegio di chi si emoziona per la prima volta e pensa che nessuno mai abbia provato niente di simile; e poi la musica nuova, quella che per la maggior parte delle persone della mia età è rumore; e anche per me, spesso. Ma qualche volta mi piace, e mi commuovo all’idea che nulla si distrugge e tutto si ricrea, e le cose belle non muoiono, comunque. E scopro e riscopro il cinema (e le serie tv). E ricomincio a leggere. E penso di tornare su libri che ho dimenticato, e di riempirmi la libreria e la testa di libri nuovi, e di andare a teatro. E il deltaplano, e il cavallo, il pianoforte, il giardino, i cani e i cavalli (futuri), la patente da prendere, la bici elettrica, e tutte queste salite e discese… quanto tempo ho? Tutto quello che c’è, giorni, ore, minuti e secondi. Ma più di ogni altra cosa, il senso di infinito me lo dà scrivere.

Scrivere è una fatica enorme. Non sempre ne ho voglia, ma è una fiamma che brucia, sempre. A volte penso che te lo devo, ma no, lo devo a me. Di tutte quelle cose, passioni, voglie e quant’altro, è quella che dura da più tempo; insieme al giardino, forse, ma scrivere mi costa di più, mi prosciuga molto più di quanto non lo faccia vangare e zappare ed estirpare erbacce. Tu sai che più forte è la corrente di amore e desiderio che ti trascina verso un mestiere o una passione (o un mestiere che sia anche una passione, e viceversa), più forte è quel senso di gioia e appagamento che riesce a farti provare, più intenso è il dolore che sta dall’altra parte della medaglia. E viceversa.

Ormai lo buttiamo nel tritarifiuti insieme allo sfalcio e ne facciamo pacciamatura per il giardino, che dici? Nel giardino di agosto fioriscono le dalie, l’ibisco, la vinca, e persino le rose. Quest’anno ci pianto anche un hamamelis e un calicanto, per avere colore il prossimo inverno. E insomma, lo vedi, io sto scrivendo.

Bilanci

Avevo promesso di non sparire, e non intendo farlo, ma ebbene sì, questo anno pieno, come per molti, credo, più di sogni, nuovi progetti e nuove idee che di azioni concrete e di realizzazioni ha messo a dura prova tutto. Persino la scrittura, l’unica attività che pensavo sarebbe stata una presenza granitica in ogni momento della mia vita, qualunque cosa potesse succedere.

Non potendo viaggiare, non potendo praticamente vedere nessuno (e avendo scoperto che a me, misantropa quale sono, questa cosa è mancata un casino), mi sono messa a studiare. Un sacco di cose, come sempre. Nello stesso modo caotico e dispersivo con cui nella vita mi sono innamorata e disamorata varie volte di argomenti, passioni, canzoni, qualche volta anche di persone, e, spessissimo, del mondo.

E a guardare serie TV. Una, in effetti. E non so se ringraziare il Cielo e l’Inferno per Supernatural e per Sam e Dean, attraverso i quali ho potuto vivere, se non altro di riflesso, una vita eroica (e per Jared Padalecki, e per altri, che sono pure loro un balsamo per gli occhi), oppure maledire questa ulteriore, ennesima causa di distrazione che mi allontana dai miei obiettivi e, in certa misura, dalla realtà. L’unica cosa di cui ho scritto in questi mesi (in inglese, come vedrete se cliccate sul link), perché mi sono nascosta dietro storie e vite altrui e dietro la passione, questa sì irrinunciabile, per quella lingua che come ho detto altre volte, dovrebbe essere casa mia, e vorrei che lo fosse, e a volte la sento tale, ci provo con tutte le mie forze, perché lì sono metà delle radici del mio albero, e metà della strada su cui cammino.

Sam – dolce, leale, riflessivo, testardo, ironico e coscienzioso Sam del mio cuore, che quando non sa come affrontare un problema, che sia un mostro, la fine del mondo, Dean in pericolo di vita o la ricetta di un incantesimo, legge e studia, anche su Internet, ma preferibilmente sui libri (come non amarlo?). Sam che ha un cuore grande come una casa, ed è a causa di quel cuore che commette i suoi peggiori sbagli. Per essere quello “prescelto” dai demoni da piccolo, ha una commovente fiducia nelle possibilità del bene, anche nei momenti più oscuri. Quando viene toccato negli affetti più cari, diventa spietato e quasi senza scrupoli, ma si finisce per perdonargli anche questo, perché è estremamente generoso e pronto a dare la vita per proteggere o salvare altri (tutti gli altri, se potesse: ogni morte gli pesa come un macigno). Questo gli interessa molto di più che uccidere mostri, cosa che vede più che altro come un mezzo per raggiungere quel risultato: non lo fa per senso del dovere, ma perché ogni singola persona è importante per lui. Frase preferita: there’s always a way (c’è sempre un modo) e I/we will fix it (ce la farò/faremo, sistemerò/sistemeremo le cose). Difetto più grave: adora suo fratello e gli permette di fare il bello e il cattivo tempo anche quando non ce n’è motivo, perché Dean si è preso cura di lui da piccolo e tacitamente continua a farglielo pesare, sicché Sam si sente in colpa ogni volta che tenta di farsi una vita sua, lontano da demoni e mostri.

Dean – il macho che scherza di fronte al pericolo – di fatto il più tormentato dei due, sempre arrabbiato con qualcosa e/o qualcuno, di solito col mondo intero, a mascherare un cuore di panna (è molto più sentimentale di Sam, ma non lo ammetterebbe mai) e, soprattutto, un senso di responsabilità che comprende tutti e nessuno in particolare. Ama il rock classico e il cibo spazzatura, beve troppo e gli piacciono molto le donne: in genere ha molta fortuna con loro, è contento ma anche geloso quando qualcuna gli preferisce Sam, al quale toccano comunque, ovviamente, gli affetti più profondi e duraturi, perché l’unica “creatura” di genere femminile che Dean è in grado di amare nel tempo è Baby, la sua macchina (la famosa Chevrolet Impala del 1967). Dean è quello che irrompe ad armi spianate e spara a qualunque cosa gli sembri lontanamente “non umana”. Crede nel dovere di lottare contro il male, ma non nella possibilità di vincere. È del tutto incapace di stare da solo. A volte mi fa tenerezza, a volte lo detesto. Frase preferita: awesome (fantastico: sia in senso proprio, sia in senso ironico). Difetto più grave: l’arroganza.

Gabriel – che è (un pochino) meno bello ma assai più simpatico di quanto sembri qui. Decisamente il mio arcangelo preferito. Non compare molto (purtroppo), ma tutte le volte che succede è una gioia.

Crowley, il Re dell’Inferno, perfido Inglese, adorabile canaglia (e forse non uo dei più belli, ma sexy da morire!)

Castiel, l’angelo dalle molte personalità e dai magnifici occhi blu

Vero, trovo le sceneggiature di Supernatural alquanto ben scritte, in generale, pur con qualche caduta (ma suvvia, se fosse perfetto ci piacerebbe di meno, no?), e penso che potrei imparare come si scrivono i dialoghi, come dire senza dire, come esprimere emozioni con un breve tratto di penna, un primo piano e un aside.

Ma la verità vera è che se la nostra vita ci bastasse, se non fossimo infinitamente contraddittori e non volessimo cose diverse e in insanabile contrasto tra loro, probabilmente non avremmo inventato né la scrittura, né il cinema e la musica, e nemmeno le serie TV.

Per cui, mentre cerco di capire se voglio rimettermi in gioco ancora una volta, e come, e quanto; se il mio scarso senso pratico mi permetterà di realizzare un progetto che coinvolgerebbe le lingue, l’amore per i viaggi, le mie arrugginite conoscenze giuridiche, un paio di talenti che forse ho e un altro paio che dovrei inventarmi e costruirmi; e se la realizzazione di questo progetto (o sogno, o vaga idea) finirebbe per compromettere irrimediabilmente l’unica cosa che credevo valesse per me più di ogni altra (la scrittura, again, e tutti i suoi contorni e dintorni); mentre continuo a fare bilanci di quest’anno e of the road so far sempre nel modo caotico di cui dicevo, uso Supernatural e lo benedico, sì, perché mi ha messa ancora una volta di fronte al fatto che volevo rendere straordinaria la mia vita e non l’ho (ancora) fatto, non quanto chiedevo a me stessa (peraltro, sono consapevole che mi sono sempre chiesta e continuo a chiedermi parecchio). Di fronte al fatto che volevo lasciare qualche traccia buona nel mondo, qualunque cosa questo potesse costare, e ogni giorno mi arrendo un po’ e poi un pochino riprendo a combattere, contro demoni, parti oscure, stanchezza e molto altro. Che mi piacciono gli eroi, purché siano testardamente leali e non perdano mai la tenerezza (e amino leggere e fare ricerche). E che la mia vita continua a non bastarmi, e io continuo a volere almeno venti cose diverse e in insanabile contrasto tra loro.

E dunque, sono ancora, e di nuovo, qui, oggi, e forse domani, o dopodomani, o tra una settimana o un mese, a preparare il pandolce, questa volta solo per noi quattro, e a domandarmi quanto, davvero, sono disposta a dare e togliere e fare, in concreto, per la scrittura, quanto mi importa di ritrovarla in fondo alle stanze segrete murate nel seminterrato in cui troppe volte la nascondo, e ritirarla fuori e non nasconderla più.

P.S. perdonatemi se ho messo solo foto di personaggi maschili: ci sono alcuni personaggi femminili che adoro, e le donne del cast sono tutte una più bella dell’altra, ma in questi giorni avevo voglia di rifarmi un po’ gli occhi. Magari nei prossimi giorni…

Il mio lato pop: Supernatural

Era da un po’ che volevo scrivere di Supernatural, una serie TV che ho iniziato a guardare poco più di un mese fa, in origine perché piaceva – e piace – moltissimo a mio figlio minore. Non sono mai stata una fan del genere horror, anzi, normalmente lo detesto. Eppure, mi ha catturata quasi dall’inizio. Non è stato propriamente amore a prima vista, ma dopo i primi tre o quattro episodi ero a tutti gli effetti stregata (termine appropriato, visto l’argomento). Di certo, le persone coinvolte (attori, sceneggiatori, registi e tutti gli altri) non si prendono mai troppo sul serio, le situazioni e i dialoghi sono spesso comicamente sopra le righe, se non del tutto folli, e nonostante questo io mi ritrovo costantemente senza fiato per la suspense. Insomma, sono davvero bravi.

Naturalmente, sono innamorata di Jared Padalecki e del suo personaggio Sam Winchester, e chi non lo sarebbe? E’ un uomo di rara forza morale, dolce, coraggioso, gentile, attento, un accanito lettore (un nerd, potremmo definirlo, trasuda letteralmente curiosità intellettuale), un po’ narciso ma tendenzialmente altruista e – non ci sarebbe bisogno di dirlo – incredibilmente bello. Soprattutto, è uno che considera tutte le ragioni del caso, senza scagliarsi a spada tratta, o piuttosto precipitarsi ad armi spianate, qualunque cosa succeda e senza curarsi delle conseguenze. Fa degli errori, ci mancherebbe, anche madornali; e nel tempo, è morto e andato all’inferno (letteralmente, intendo) un mucchio di volte, nel tentativo di sistemare le cose e aiutare gli altri. Da lì, è stato sempre salvato dal fratello maggiore ho-il-mondo-tutto-sulle-mie-spalle Dean, bravo ragazzo e tutto, protettivo e generoso, ma un po’ troppo tirannico con suo fratello, convinto di avere sempre ragione, costantemente arrabbiato, macho-ma-sensibile, sciupafemmine e incapace di restare da solo. Succede anche il contrario, vale a dire, Sam ha salvato il posteriore di Dean un gran numero di volte, ma senza vantarsi della cosa fino a rendersi insopportabile.

Comunque, il personaggio a cui mi sono affezionata di più, nel corso delle otto o nove stagioni in cui è apparso, è Crowley, il re dell’Inferno (Mark Sheppard).  Se Lucifero è l’Antagonista con la A maiuscola, Crowley è sempre un po’ di qua e un po’ di là, e questo mi piace, essendo io sempre molto favorevole alle vie di mezzo e alle zone grigie. Credo sia la sua totale mancanza di interesse verso la bontà e il senso morale, unita al meraviglioso humour britannico, a una buona dose di ironia e all’evidente (sebbene sempre ostinatamente negato) affetto per i Winchester a renderlo adorabile. Mi è piaciuto un sacco un episodio in cui a un certo punto lui tira fuori il cellulare mentre qualcuno sta chiamando, e si capisce che i numeri della rubrica sono divisi tra “Moose” (letteralmente Alce, tradotto in italiano un po’ debolmente come “Testone“, vale a dire Sam) e “Not Moose” (non testone, in pratica quasi solo Dean, alias squirrel, lo Scoiattolo, in italiano Testacalda). Si tratta forse della prima volta in cui Crowley rivela i suoi veri sentimenti nei confronti dei “ragazzi”. La sua malvagità beffarda (a volte, specie nei primi episodi, quasi sprezzante) e quei curiosi rapporti di amicizia/odio tra lui, sua madre Rowena, l’angelo Castiel, Lucifero e i ragazzi sono tra gli aspetti più gustosi e in generale tra le cose migliori della serie. SPOILER ALERT A quanto pare, non sarà presente nelle ultime due stagioni (ancora non arrivate in Italia, l’ultima dovrebbe essere ancora in corso di lavorazione). Spero che chi ha deciso di eliminare il personaggio definitivamente cambi idea: sarebbe davvero un peccato.

Poi c’è il Castiel di Misha Collins, angelo e Dio, senzatetto disperato e guerriero, idiota dalle buone intenzioni e leader straordinariamente capace, affettuoso protettore dell’umanità e killer glaciale, passa da una personalità all’altra fino a sperimentare, in pratica, tutte quelle possibili, sempre apparentemente imperturbabile, capace di dire le cose più surreali senza fare una piega, eppure sempre esprimendo moltissimo con un indefinibile linguaggio non verbale che rivela più di qualunque parolao espressione facciale.

E che dire della deliziosamente orrida, incantevolmente odiosa Rowena (Ruth Connell)? Che dire di Meg, Ruby, Sarah, Eileen, Hannah, Jody, e tutte quelle donne-demone, donne-donne, donne-angelo, cacciatrici e streghe, dalla volontà d’acciaio, estremamente sicure di sé o piene di dubbi e insicurezze (e talvolta entrambe le cose), piene d’amore e umanità o esecrabili (anche qui, spesso entrambe le cose, nello stesso momento o nel corso del tempo), che hanno amato, odiato, tradito, combattuto e vissuto e sono morte (anche loro, in molti casi, più di una volta) per gli altri o per sé stesse nel corso delle quindici stagioni della serie?

Insomma, cos’è che rende questo programma così speciale, almeno per me? In primo luogo, il fatto che l’horror non è affatto l’aspetto principale. Voglio dire, sono sicura che anche i fan dello splatter possano trovare qui pane per i loro denti. Ma personalmente, quello che mi affascina, specialmente in questo particolare momento, e a parte tutta la follia e lo humour e quella testarda, commovente speranza di cui trabocca, sono le domande che pone; domande universali dell’umanità, onnipresenti e non particolarmente originali, forse: vita, sopravvivenza, libertà e sicurezza, giustizia e vendetta, bene e male, coraggio e incoscienza, senso di responsabilità e senso di colpa, amore, perdita e bisogno – non sano – di qualcuno, scelte terribili fatte “in nome di un bene più grande” e scelte giuste fatte nel proprio interesse. Quali sono i confini? Sento l’esigenza di ridisegnarli, di lavorare su queste idee e ridefinirle in qualche misura, e mi sono ritrovata a far tesoro di questo buon vecchio modo di riflettere grazie a una storia che mi coinvolge, e in cui posso immergermi completamente, anche per tenere la testa tra le nuvole per un po’, che serve sempre.

So che ci sono dei punti deboli (in primo luogo, un po’ tanta propaganda pro-USA e pro-armi, temo), ma l’ho amata e la amo incondizionatamente, punti di forza e punti deboli e tutto quanto e quindi, alla fine dei conti, va benissimo così.

Sepùlveda

No, non c’è un senso, è inutile cercarlo. Se c’è, sta semplicemente nel fatto che ci sia data, forse per caso, forse no, una possibilità su un fantastiliardo di avere una coscienza e farne qualcosa. Ecco, Sepùlveda di questa coscienza ne ha fatto più di qualcosa. L’ha usata a fondo, l’ha spremuta, tenuta costantemente sotto pressione, interrogata, amata, se ne è preso cura, l’ha ascoltata e usata fino all’ultima briciola. Questo, almeno, è quello che a me a sempre fatto pensare. Uno che vedeva chiaramente il valore della bontà e dell’allegria, perché la crudeltà e il dolore li aveva vissuti senza risparmiarsi mai. Uno che poteva permettersi di parlare di sogni, perché della realtà conosceva ogni aspetto, e che non ha mai parlato di coraggio perché non ne aveva bisogno, il coraggio gli respirava dentro. Ecco, Sepùlveda è un altro per cui, che ci sia o meno un significato più profondo, di questa possibilità su un fantastiliardo che è stata data anche a me e che mi permette di leggere, ascoltare musica e venire a contatto con certe persone, sono profondamente grata.

DECIMA TESTIMONIANZA
《Quando riposa il lungo treno si riuniscono gli amici…》 Questo treno, don Pablo, si è fermato già da troppo tempo, eppure il presagio della poesia si è compiuto ugualmente. Eccoci qua, noi amici, i Dodici della Fama, i dodici apostoli che tentano la resurrezione di un arrugginito drago britannico. Come tutti gli uomini, vogliamo realizzare un piccolo, minuscolo ma evidente miracolo, e lassù, sopra la macchina, c’è Juan Riquelme, il fuligginoso, uno di quei tanti modesti Juan, illustri sconosciuti, ma sicuri di riuscire a pulirsi le mani sporche di grasso in un pezzo di stoffa o di storia, di accendersi una sigaretta e, senza dare troppa importanza a quanto hanno realizzato, di dire al miracolo, come a Lazzaro, alzati e cammina!
Forse, don Pablo, stiamo scrivendo con ferri vecchi un nuovo verso che tirerà fuori per qualche istante il “lungo treno” dal suo giusto letargo.
E deve farcela. Se riusciamo a smuoverlo anche solo di un centimetro, sarà la vittoria, il trionfo dell’allegria sullo sputo dell’odio. E in questo mare di sabbia, sole, vento e sottile pioggerellina, questi Dodici Argonauti si preparano, perché come ha detto lei, don Pablo, “il ferroviere è marinaio in terra e nei piccoli porti senza mare”. (Da: Incontro d’amore in un paese in guerra).

Chiocciola

Ogni tanto ci provo, a uscire nel mondo, a gettarmi nella mischia, o più semplicemente a cercare di mettermi in gioco, di farmi sentire, di prendere posizione, di lasciare un segno. Forse il problema è che come le chiocciole, il mio guscio ce l’ho sempre dietro, e non potrei neanche liberarmene, senza morire. Forse l’unico segno che lascerò sarà quest’ombra leggera sulle labbra di uno che non sa che l’ho baciato.

il mio silenzio selvaggio stava in bilico
sul ciglio dell’abisso
è tuo da quella sera
che ho incominciato a crederti
quando il mio silenzio l’hai sentito
in mezzo ad altri,
scroscianti, striscianti, laceranti.
In quelle sere, anima nobile,
hai vegliato
quel poco di umano che restava

[…]

Big Fish, ovvero l’ultimo film che ho visto nel 2019

Big Fish, di Tim Burton (2003): allegro, tragico, spiazzante, gioioso, assurdo, poetico, irritante, malinconico. Con una bellissima storia. e attori del calibro di Albert Finney, Ewan McGregor, Billy Crudup, Helena Bonham Carter. Non grandi star, insomma, ma attori seri, che credono molto in quello che fanno e scelgono i ruoli con molta cura.

Nel suo modo Burtoniano, apparentemente leggero, un racconto molto profondo sul significato concreto, il più vero, non sempre facilmente comprensibile dalle persone a noi più vicine, del condurre una “vita straordinaria” e “restare sé stessi”: ossia, prendere la vita come se fosse una storia, comune, dopotutto, ma al tempo stesso unica per il modo in cui la raccontiamo. E secondo me, è proprio raccontare, immaginare, sognare la vita, per Burton, (e io mi identifico e mi riconosco molto in questo), che, appunto nel renderla esagerata, larger than life, coincide con il viverla.

Related image

 

Non ho tempo, non ho vita (post malinconico ma non troppo)

Dei primi quattro blog aperti oggi, tre parlavano del tempo, come protagonista o come comprimario, ma comunque centrale (questo, questo e questo). Il tempo che determina quello che possiamo e non possiamo fare, che accelera o rallenta secondo le nostre percezioni, che ci definisce e segna i nostri confini, dando vita alla memoria, all’immaginazione del futuro e, nel migliore dei casi, a un’intensa consapevolezza del presente.

Tempo fa, in un seminario per il resto inutile sulla gestione del tempo, una frase mi rimase impressa: il tempo coincide con la vita, per cui, quando diciamo “non ho tempo, non ho avuto tempo”, è come se dicessimo “non ho vita, non ho avuto vita”. Mi colpì in quel momento, e da allora ogni tanto ci torno col pensiero, perché pur non essendo neppure questo, probabilmente, un concetto originalissimo, credo sia molto raro metterlo effettivamente in pratica.

Per che cosa “non abbiamo vita”? Per ciò che ci annoia, ci irrita, ci infuria, ci addolora, o per le cose di cui ci importa realmente, ma che lasciamo per un indefinito “dopo” che forse rischia di non arrivare mai?

Nei limiti del possibile, ho deciso di dedicare il tempo, la vita, non solo e non tanto a “quello che amo” (concetto dai contorni spesso più sfuggenti di quello che saremmo portati a pensare), ma a “quello di cui mi importa”. A volte, questo ha significato dover ribaltare il modo di vedere alcune cose: amo spolverare, lavare i pavimenti, pulire il bagno? Certo che no, ma è importante come cura di me e della mia casa, il  mio nido, il posto in cui vivo (e fermo restando che anche altri ci vivono, e la loro collaborazione è essenziale).

Ho cambiato lavoro anni fa, e per giunta da uno considerato in generale più “prestigioso” e potenzialmente lucroso (tranne che da chi lo esercita), a uno meno socialmente considerato e decisamente più compatibile con i miei talenti, i miei desideri, il mio tempo. Lavoro che non sempre amo, ma che mi importa svolgere al meglio delle mie capacità, per soddisfazione, per orgoglio, per il tempo che ci dedico, e cì, anche per il vile denaro, che mi permette a sua volta (quando va bene) di dedicarmi ad altre cose di cui mi importa moltissimo, come i viaggi, o il giardino.

La scrittura la amo, qualche volta, ma mi capita di odiarla. In ogni caso, me ne importa, e moltissimo. Le persone a me care le amo sempre, ma spesso ho preferito e preferisco la solitudine, purché, naturalmente, temporanea.

Tutto sommato, ogni cosa che scegliamo di fare ha per noi, “in quel momento”, la priorità, tanto da dedicarle pezzi di vita, a scapito di altre. Continuiamo pur sempre a non poter fare tutto, a dover selezionare. Penso sia questo il punto. L’importante è sapere che le priorità cambiano, e che il tempo, la vita, richiede un ascolto costante. Inutile forse rimpiangere le scelte fatte in passato: evidentemente avevano, per noi, un valore; ma utilissimo, secondo me, ripassare ogni tanto quelle scelte, capire se valgono ancora, abolire tutti gli ormai, per non dover poi trovarci a dire alla fine della giornata (in senso reale e metaforico), “non ho  avuto abbastanza vita”.

Long time no hear

È trascorso oltre un mese dal mio ultimo post. Un tempo notevolmente lungo, benché poco dopo l’inizio della vita del blog sia stata quasi due anni senza scrivere niente. Nel frattempo sono successe molte cose, belle e brutte, alcune molto brutte. Altre molto belle. Ma mi sono presa una lunga pausa dalla scrittura, non del tutto voluta. Tutta la scrittura, non solo qui: non una riga, né in prosa, né in versi. È come se, da una parte, la vena si fosse inaridita; dall’altra, stare senza scrivere mi crea talvolta un malessere quasi fisico, eppure non sempre riesco a vedere il senso di farlo. Ma passerà. Credo.

Nell’orrida vicenda di Quargnento, di cui non voglio neanche parlare, è morto tra gli altri un caro amico di mio marito, che veniva in campagna nello stesso posto dove andiamo noi. Una persona d’oro, padre di una bimba spericolata e simpaticissima che adorava suo padre. E che l’ha perduto a causa di uno totalmente vuoto, che sembra incapace non dico di tener conto degli altri, ma anche solo di vederli, di accorgersi che esistono.

Poi ci sono le alluvioni nella zona, il crollo del muro del giardino, la ristrutturazione della casa dove, con un po’ di fortuna, vorremmo andare a vivere in un futuro non troppo lontano,  e di cui mi sto innamorando sempre più, dedicandole cure, attenzioni, tempo ed energie, ma che sta prosciugando le nostre risorse; e ancora, tutte le paure e le gioie legate ai figli e al resto della famiglia “allargata”.

E poi c’è il lavoro, gli alti e bassi, fasi di “stanca”, con tutte le preoccupazioni che comportano, finanziarie e di altra natura, e le fasi di improvvisa esplosione, quando tutto il mondo sembra aver bisogno di te (quasi in senso letterale, visto che ho ricevuto dagli Stati Uniti più lavoro in un mese di quanto me ne fosse arrivato nei precedenti quindici anni) e non riesci nemmeno a respirare. Nel frattempo, sono anche riuscita a ottenere la certificazione ISO. Sì, di pentole sul fuoco ne metto comunque sempre tante, e di solito riesco a non bruciare niente, o quasi.

Negli ultimi giorni, sono riuscita a trovare abbastanza tempo libero da guardarmi tutte le prime quattro stagioni di Downton Abbey, una serie che non avevo mai visto, ed è stato quasi un colpo di fulmine (a scoppio leggermente ritardato, ma non troppo). Ora devo recuperare le ultime due, ma devo trovarle in inglese. Il cofanetto delle prime quattro contiene alcuni episodi in italiano e inglese (con sottotitoli solo in italiano) e alcuni, inspiegabilmente, in italiano e russo. Da traduttrice, capisco bene le difficoltà di doppiaggio e sottotitolazione e capisco che è stato fatto un ottimo lavoro. Resta il fatto che si perde moltissimo. In alcuni casi, con la lingua e la voce sembra cambiare addirittura il carattere dei personaggi, persino l’atmosfera stessa, che dopotutto, è una parte tutt’altro che secondaria del fascino della serie. Comunque, se riesco ne parlerò magari nel prossimo post. Non vorrei passasse di nuovo così tanto tempo tra uno e l’altro.

Però a qualcosa bisogna rinunciare, e per un po’ è stata la scrittura. Spero non sia per molto.

Di malinconia e felicità

A seguito del mio ultimo.post ci tenevo a precisare che malinconia e tristezza per me non sono assolutamente la stessa cosa. Io mi considero una persona felice (e probabilmente lo sono in larga misura appunto perché lo penso, se capite cosa intendo). La malinconia, che è un mio modo di essere e oserei dire, di pensare, è parte strettamente integrante di quella intensità che mi è necessaria per essere felice. Contorto? Forse, ma se mi offrissero una vita senza malinconia non so se accetterei. Magari sì, ma dovrei pensarci bene.

Malinconia di terra e di mare

Malinconia è il mio stato d’animo prevalente, in questi giorni di mare e di terra, di quiete e scrittura e di piccole solitudini condivise con pochissimi.

Per me la malinconia è questo, tutto l’amaro è tutto il.dolce delle cose vive, di quel tempo che è passato e futuro insieme, racchiusi nel presente.

E ancora mi rifugio nei libri e nella dolcezza del tuo sguardo, contro quella parte di mondo che continuamente cerca di tirarmi dentro, ma c’è in me una forza più grande, un’altra parte di mondo che mi appartiene, che combatte con me per uno spazio che resti invalicabile, se non da chi si accosta volando. Impermeabile agli spauracchi, alle brutture inutili, agli omini di burro e ai paesi dei balocchi. Aperto ai falchi pellegrini, agli orsi in fuga, ai ponti color oro rosso, agli amori che ridono in un abisso di stelle.