E se il Volga e lo Hudson, un giorno…

Se non scrivo non è perché io sia obiettiva. Non lo sono mai stata, non quando si tratta di Putin (forse non lo sono mai, su niente), e in questo caso non mi sforzo neanche di esserlo. Quindi non si tratta nemmeno del non voler prendere posizione. Ho cercato, nei giorni scorsi, di farmi almeno una vaga idea di quello che sta dietro a questa guerra, assurda come tutte le guerre. Non le ragioni, quindi, perché di ragioni, per una guerra, non ce ne sono mai: ma qualche sprazzo di comprensione degli scenari, tra luoghi mai sentiti prima, parole usate a vanvera (due su tutte: libertà e neonazismo) e un tizio che non c’era bisogno della vicenda di Anna Politovskaja e addirittura di una guerra per capire che intenzioni aveva (sarà che io, per certe smanie di controllo e di potere, ho sviluppato un sesto senso nel corso di anni abbastanza terribili della mia vita).

Ho cercato e cerco ancora, perché poi si dice, una volta che la guerra c’è, sapere com’è andata lascia il tempo che trova, ma io invece penso di no, penso che sarebbe veramente importante sapere qualcosa di più delle relazioni internazionali, del Donbass, di rivoluzioni e interessi e diplomazie e paure.

Ma stasera ho deciso di vedere Moscow on the Hudson. Perché sì, Robin è ancora (sarà sempre) la mia finestra sul mondo, e perché questo film, non notissimo, contiene almeno due scene secondo me molto belle: la prima è in realtà una scena doppia, che comincia immediatamente all’inizio e finisce con le ultimissime inquadrature. In mezzo c’è la storia del russo Volodya che “sceglie” (praticamente suo malgrado) di chiedere asilo in America, ma che, a differenza di altri compagni “di avventura/sventura” non si integrerà mai davvero, e pur non rinnegando la sua impulsiva decisione, continuerà a sentirsi in qualche modo “diverso”. Che, credo, è la condizione di chiunque, per qualsiasi motivo, si trovi ad “appartenere” a più luoghi, più comunità, lingue, culture, ecc.

L’altra scena è quella in cui, poco dopo l’inizio della sua nuova vita occidentale, Volodya sviene davanti alla enorme scelta di marche di caffè nel reparto di un supermercato.

E penso che fin da quando scherzava, in Mork & Mindy, sul doppio significato della parola alien – perché gli sembrava assurdo considerare “alieno” qualcuno che veniva solo dalla Russia, mica da Ork (e del resto a lui, che alieno lo era davvero, nessuno gli credeva o gli chiedeva documenti) – la sua “poetica” (permettetemi, vi prego, di usare questa parola), è stata sempre la ricerca di un territorio comune, in cui tutto si può criticare e amare con la stessa viscerale passione. Niente è sacro, ma ci sono aspetti preziosi della nostra vita e della nostra anima che sono comuni a tutti. E non c’è mai stato alcun buonismo da “anima bella” nella sua spesso faticosissima ricerca di cose belle e gioiose, condotta di pari passo con la ricerca della verità “fino a scavare sotto le rocce”.

Non so cosa avrebbe detto Robin oggi, mi manca più che mai quando annaspo tra ansia e sconforto, perché lui – e qui penso soprattutto al teatro – sempre con quella luce negli occhi da “capitano di vascello in un libro per bambini”, ci ha sempre dato una chiave per leggere la complessità e la crudeltà degli eventi (e le nostre paure), rendendoli non più semplici, ma più “avvicinabili”. E se una cosa so, in tutto questo casino, è che non voglio che la mia solidarietà con gli aggrediti diventi un essere “contro” (o anche “pro”, se è per questo) un intero popolo. Tantomeno poi contro una cultura, compresi magari scrittori nati duecento anni fa e invisi, anche allora, al potere (chissà, forse la Bicocca, nella sua scelta apparentemente scellerata di sospendere il corso su Dostoevskij, aveva previsto che questo gli avrebbe ridato una popolarità tale da attrarre un numero di persone molto maggiore! E infatti è tornata sui suoi passi rapidissimamente. Dite che non si era aspettata la reazione? Uhm…).

Io al nazionalismo non ci credo, non ci ho mai creduto, non ci crederò mai. Credo alle appartenenze, questo sì, ma sono appartenenze intime, di anime e affetti che non sono dettate solo dai luoghi, anzi, forse dai luoghi in minimissima parte. I luoghi, semmai, se li reinventano, li ridisegnano, ne fanno altro. E insomma, alla fine a me sembra giusto semplicemente amare chi ci pare, e forse anche odiare qualcuno, perché sì, succede. Ma pochi, pochissimi, rigorosamente scelti.

E guardatevi Mosca a New York, perché forse si può essere di parte senza perdere la tenerezza, che di nemici a prescindere io ne farei proprio volentieri a meno.

P.S., forse non c’era bisogno di dirlo, ma naturalmente, Volodya potrebbe essere tranquillamente ucraino; la sostanza non cambierebbe affatto.

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