Buon Anno!

In questo 2022 ho fatto, detto, pensato, progettato, architettato varie cose; altre ne ho iniziate e le sto portando avanti; qualcuna l’ho tenuta in sospeso, in attesa del tempo giusto, come la scrittura (incluso questo blog). Provo gratitudine per una quantità di motivi, e naturalmente ci sono anche diversi aspetti che vorrei cambiare, ma sto imparando a lasciar andare quello su cui non posso intervenire in alcun modo, e preoccuparmi semmai, se proprio devo, solo di quegli aspetti sui quali posso agire (calma: ho detto “sto imparando”, la strada è lunga e in salita!).

Nel complesso, un anno intenso, difficile, faticoso ma lo saluto comunque con un certo affetto, non è stato poi malaccio, l’ho usato soprattutto per gettare alcune basi, elaborare, predisporre fondamenta: un anno di crisi e di transizione, insomma, con tante paure e molte speranze. Come tutti gli anni, forse, quale più, quale meno. Ma alcuni sogni che avevo in cantiere da tempo, ho cominciato a farli avverare. E forse questo 2023 sarà un anno di realizzazioni, un anno di traduzione dei pensieri e dei sogni in realtà.

Nel frattempo, ho cominciato ad andare a cavallo. E non era nella lista di cose da fare nei prossimi dieci anni scritta tempo fa, ma avrebbe dovuto esserci.

Un caldo augurio di Buon 2023 a chi passerà, e anche a tutti gli altri!

E se il Volga e lo Hudson, un giorno…

Se non scrivo non è perché io sia obiettiva. Non lo sono mai stata, non quando si tratta di Putin (forse non lo sono mai, su niente), e in questo caso non mi sforzo neanche di esserlo. Quindi non si tratta nemmeno del non voler prendere posizione. Ho cercato, nei giorni scorsi, di farmi almeno una vaga idea di quello che sta dietro a questa guerra, assurda come tutte le guerre. Non le ragioni, quindi, perché di ragioni, per una guerra, non ce ne sono mai: ma qualche sprazzo di comprensione degli scenari, tra luoghi mai sentiti prima, parole usate a vanvera (due su tutte: libertà e neonazismo) e un tizio che non c’era bisogno della vicenda di Anna Politovskaja e addirittura di una guerra per capire che intenzioni aveva (sarà che io, per certe smanie di controllo e di potere, ho sviluppato un sesto senso nel corso di anni abbastanza terribili della mia vita).

Ho cercato e cerco ancora, perché poi si dice, una volta che la guerra c’è, sapere com’è andata lascia il tempo che trova, ma io invece penso di no, penso che sarebbe veramente importante sapere qualcosa di più delle relazioni internazionali, del Donbass, di rivoluzioni e interessi e diplomazie e paure.

Ma stasera ho deciso di vedere Moscow on the Hudson. Perché sì, Robin è ancora (sarà sempre) la mia finestra sul mondo, e perché questo film, non notissimo, contiene almeno due scene secondo me molto belle: la prima è in realtà una scena doppia, che comincia immediatamente all’inizio e finisce con le ultimissime inquadrature. In mezzo c’è la storia del russo Volodya che “sceglie” (praticamente suo malgrado) di chiedere asilo in America, ma che, a differenza di altri compagni “di avventura/sventura” non si integrerà mai davvero, e pur non rinnegando la sua impulsiva decisione, continuerà a sentirsi in qualche modo “diverso”. Che, credo, è la condizione di chiunque, per qualsiasi motivo, si trovi ad “appartenere” a più luoghi, più comunità, lingue, culture, ecc.

L’altra scena è quella in cui, poco dopo l’inizio della sua nuova vita occidentale, Volodya sviene davanti alla enorme scelta di marche di caffè nel reparto di un supermercato.

E penso che fin da quando scherzava, in Mork & Mindy, sul doppio significato della parola alien – perché gli sembrava assurdo considerare “alieno” qualcuno che veniva solo dalla Russia, mica da Ork (e del resto a lui, che alieno lo era davvero, nessuno gli credeva o gli chiedeva documenti) – la sua “poetica” (permettetemi, vi prego, di usare questa parola), è stata sempre la ricerca di un territorio comune, in cui tutto si può criticare e amare con la stessa viscerale passione. Niente è sacro, ma ci sono aspetti preziosi della nostra vita e della nostra anima che sono comuni a tutti. E non c’è mai stato alcun buonismo da “anima bella” nella sua spesso faticosissima ricerca di cose belle e gioiose, condotta di pari passo con la ricerca della verità “fino a scavare sotto le rocce”.

Non so cosa avrebbe detto Robin oggi, mi manca più che mai quando annaspo tra ansia e sconforto, perché lui – e qui penso soprattutto al teatro – sempre con quella luce negli occhi da “capitano di vascello in un libro per bambini”, ci ha sempre dato una chiave per leggere la complessità e la crudeltà degli eventi (e le nostre paure), rendendoli non più semplici, ma più “avvicinabili”. E se una cosa so, in tutto questo casino, è che non voglio che la mia solidarietà con gli aggrediti diventi un essere “contro” (o anche “pro”, se è per questo) un intero popolo. Tantomeno poi contro una cultura, compresi magari scrittori nati duecento anni fa e invisi, anche allora, al potere (chissà, forse la Bicocca, nella sua scelta apparentemente scellerata di sospendere il corso su Dostoevskij, aveva previsto che questo gli avrebbe ridato una popolarità tale da attrarre un numero di persone molto maggiore! E infatti è tornata sui suoi passi rapidissimamente. Dite che non si era aspettata la reazione? Uhm…).

Io al nazionalismo non ci credo, non ci ho mai creduto, non ci crederò mai. Credo alle appartenenze, questo sì, ma sono appartenenze intime, di anime e affetti che non sono dettate solo dai luoghi, anzi, forse dai luoghi in minimissima parte. I luoghi, semmai, se li reinventano, li ridisegnano, ne fanno altro. E insomma, alla fine a me sembra giusto semplicemente amare chi ci pare, e forse anche odiare qualcuno, perché sì, succede. Ma pochi, pochissimi, rigorosamente scelti.

E guardatevi Mosca a New York, perché forse si può essere di parte senza perdere la tenerezza, che di nemici a prescindere io ne farei proprio volentieri a meno.

P.S., forse non c’era bisogno di dirlo, ma naturalmente, Volodya potrebbe essere tranquillamente ucraino; la sostanza non cambierebbe affatto.

Stories from the Garden – A come Abelia

Dicembre, mese dei fiduciosi: il mese con meno luce di tutti è anche quello in cui si festeggia il ritorno della luce; il mese in cui il giardino appare più spoglio che in tutto il resto dell’anno è anche quello in cui si piantano (o si continuano a piantare, da novembre in poi) alberi e bulbi, che resteranno sottoterra, senza alcuna certezza, fino alla prossima primavera, che “prenderanno” e daranno frutti e fiori. Ma che sarebbe del nostro giardino, se non avessimo quella fiducia? Niente uccelli, e neppure insetti, in questa stagione; ma crediamo, “sappiamo” che torneranno, e per questa certezza mettiamo piante a dimora, ripariamo quelle che temiamo più fragili, puliamo attrezzi, in attesa di nuove impollinazioni.

E’ il mese delle “lunghe sere invernali” per eccellenza. E allora io ne approfitto per guardare film e serie TV, dedicarmi a qualche decorazione più o meno natalizia, provando a far rivivere vecchi oggetti trovati in casa e nei mercatini qua e là,

Oggetti di recupero

e, infine, scrivere, passione troppo spesso tradita ma alla quale sono sempre tornata.

A gennaio, le giornate riprendono lentamente ad allungarsi. Ieri era Capodanno e faceva caldo; oggi non fa ancora freddo, ma le temperature stanno calando, è in arrivo una perturbazione siberiana e qui sugli Appennini è tornato il vento. Non c’è momento migliore per iniziare un piccolo inventario delle mie piante – e dei relativi accostamenti, perché amo sperimentare a ragion veduta, e non c’è pianta migliore per iniziare di quella che viene per prima in ordine alfabetico: l’Abelia.

Infatti, la mia Abelia Lucky Lots ha sì una deliziosa fioritura che la ricopre di bianco dalla pimavera all’estate inoltrata

Abelia in settembre
Abelia in settembre

ma è anche una pianta rustica, sempreverde, con belle foglie verde scuro dai margini bianchi che in pieno inverno danno colore al giardino.

Abelia in gennaio
Abelia in gennaio

Cresce sia al sole che in mezz’ombra, in piena terra o anche in fioriera. Può raggiungere anche i 4 metri, ma viene molto facilmente mantenuta entro i due, per cui è perfettamente adatta ai piccoli giardini. Io l’ho accostata al lillà e a una rosa inglese (Austin) bianco-rosata, Wollerton Old Hall, oltre ad alcune talee di forsizia gialla.

Diversi altri accostamenti sono comunque possibili: l’abelia infatti sta bene anche con: nandina domestica, spirea, osmanto, corniolo, tagete, rudbeckia, gazania; gaura, persicaria, geranium, verbena, ecc.

Vi terrò aggiornati, ma intanto vi auguro Buon Anno Nuovo con questa pianta dalle molte qualità, che in ogni stagione ha sempre qualcosa da dare!

La poesia non è civile

La poesia non è affatto civile:

è un bambino al tavolo dei grandi,

un gatto selvatico, che graffia

le cortecce e i topi senza alcuna coscienza

del disastro ambientale;

l’abbaglio violento della luce nel porto

tra il piombo dei cumulonembi.

Qualcosa che morde, spreme la voce

fino all’ultima goccia di sangue;

sovverte il tempo con crudele, aggraziata lentezza;

il tronco caduto di traverso sulla strada,

il macigno in bilico sulla cima del monte

prima di rotolare in fondo alla valle,

un pozzo insaziato,

un’opera al nero,

figlia illegittima

di questa fame infinita di vita

STORIES FROM THE GARDEN – EARLY AUTUMN GIFTS

(l’articolo in italiano qui)

In the last few days, I’ve been practicing rain dance (please don’t hate me!). Unfortunately, I can’t dance, and I might have overdone it a little, my moves might have been not exactly right, or maybe, the downpour gods resented the fact that I used very mainstream songs in my exercise dance mix, so to speak.

However. I’ve been thinking, we actually change a lot, over the years and the seasons. The town girl I was would have fully agreed with the idea that rain is “bad weather”; after three days, she would have complained about “how awful it is, will it ever, ever stop?!”; and she would have continued, as in Bob Seger’s Someday, to keep on reachin’ for the sun.

For the middle-aged country lady I’ve become, though, well, that’s another matter altogether: that lady loves rain (almost) like sunny days, and every down and then, she cries out for her fair share of dark, rainy clouds. Also because that lady lives (for a large part of the year), in a place where summers are cool but definitely sunny, especially in recent years. And, above all, she has a vegetable garden and a flower garden.

As for most things, the good comes with some bad here.

BAD: the rain brings animals and bugs, not all of which are beneficial, when it comes to plants. Some of them are actually… real pests. And weeds, oh, weeds just, well, pouring in. And mud, too, especially if the soil is clayey, like ours, which means it forms concrete-like, drenched, sticky clumps (especially if walked over), which, in summer, will become extremely dry and shrink into cracked and – would you believe it – concrete-like clumps.

GOOD: apart, of course, from quenching the thirst of plants, which are almost always better even after a brief rain shower than after being watered, whatever the way and the amount: weeds come out more easily (although you will always have to be careful not to “lump it up” by goofily treading on it); the sun seems brighter and warmer afterwards, the sky clearer, the air more transparent, and everything seems to be given new life, to get stronger, blossom and bloom, like this:

Begonia in bloom

(You will find other pictures on my Instagram profile, if you like):

https://www.instagram.com/stories/alexgenova1/2671165787107078692/

Storie dal giardino – doni di inizio autunno

Nei giorni scorsi ho fatto pratica di danza della pioggia (non odiatemi, per favore!). Purtroppo, non so ballare, e potrei forse aver esagerato un po’, o fatto qualche mossa non proprio precisa, oppure gli dei degli acquazzoni si sono offesi per il fatto che per esercitarmi io abbia usato (tra l’altro), brani di Jovanotti. Sta di fatto che pensavo, come si cambia, con gli anni e le stagioni. La ragazza di città che ero avrebbe condiviso pienamente l’idea che la pioggia fosse “maltempo”; dopo tre giorni avrebbe dichiarato “che strazio, ma non smette mai!”, e avrebbe continuato, come in Someday di Bob Seger, a “keep on reachin for the sun” (cercare di raggiungere il sole).

Ma invece, la matura signora di campagna che sono oggi ama la pioggia (quasi) quanto il sole, e ogni tanto chiede a gran voce la sua personale nuvola dell’impiegato (o meglio, della traduttrice), anche perché vive (per estesi periodi dell’anno) in un posto in cui le estati sono fresche ma decisamente soleggiate, almeno negli ultimi anni. E, soprattutto, ha un orto e un giardino.

Come in quasi tutte le cose, anche qui, sono gioie e dolori.

DOLORI: la pioggia porta animali e animaletti, non sempre benefici, soprattutto se parliamo di parassiti delle piante. Ed erbacce, anche, tante, tantissime erbacce. Come se piovesse, ecco. E poi, fango, soprattutto se la terra è, come nel nostro caso, argillosa, che significa blocchi fradici, che si incollano e, se ci cammini sopra, diventano duri come cemento, per poi d’estate prosciugarsi e seccare in macigni aridissimi con tante piccole crepe tipo deserto. Ma duri come il cemento, of course.

GIOIE: a parte, ovviamente, soddisfare la sete di piante che stanno quasi sempre meglio dopo qualunque pioggia anche breve che dopo annaffiature di qualunque forma ed entità: le erbacce si tolgono più facilmente (sempre facendo attenzione a non immacignire il terreno con qualche mossa avventata), il sole, dopo, sembra più caldo e luminoso, il cielo più terso, l’aria più trasparente, e tutto rinasce a nuova vita, o comunque acquista forza, linfa vitale, sboccia e fiorisce, così:

Begonie in fiore

(potete vedere altre foto dal mio profilo Instagram, se volete):

https://www.instagram.com/stories/alexgenova1/2671165787107078692/

Senza principio

Quanti nidi quest’anno, sotto il tetto,

nuove parole e insetti,

nuovi amici.

Rinascita.

Il vino si beve con calma,

ogni sorso una strada stretta,

un segnale di pericolo e dolcezza,

un amore largo e ingrato,

senza fine;

e persino,

forse,

senza principio.

Ar Ghàradh – Our Garden – Il nostro giardino

Cèad mile fàilte! Welcome! Benvenute e benvenuti con tutto il cuore!

Avendo lontane radici irlandesi e pù vicine radici inglesi, oltre a quelle italiche, ho cercato alcune parole in gaelico irlandese che fossero in qualche modo legate ai giardini. La mia passione per la terra sta prendendo il suo giusto spazio, ossia quasi tutto il mio tempo libero, tranne quello dedicato alla scrittura, alla lettura, ai viaggi, a cinema/serie TV e teatro. Per ora riesco anche a lavorare… non so per quanto ancora!

E così ho deciso di creare una sezione del blog dedicata ai lavori della terra, per così dire. Cogliendo l’occasione dal fatto che un paio d’anni fa l’alluvione ha fatto crollare gran parte del muro, riducendo la zona così (l’immagine è sfocata ma credo renda l’idea):

Poi, nel corso dei lavori, quella parte del giardino (in pratica, quasi la metà) si presentava così:

Ar Ghàradh

E a muro nuovo finito, così:

Un deserto pietroso, con una media di mezzo quintale di sassi per metro quadrato ed erbacce con le radici di piccoli alberi, da lavorare praticamente tutto a mano, armati di vanga, zappa e rastrello (beh, fa bene sia per la linea che per il diabete!). Il che significa, in sostanza, che abbiamo dovuto/potuto partire praticamente da zero: la situazione ideale per raccontare come un giardino vive e prende forma – con tutte le piante che man mano vengono seminate, propagate per talea o acquistate e viste crescere.

Da allora sono trascorsi poco più di quattro mesi, e nei prossimi post di questa sezione vi racconterò gioie e dolori di una giardiniera dilettante e un po’ disordinata, con tanto amore per le piante (da fiore, ma anche da orto) e i giardini inglesi, tanta buona volontà, corporatura (abbastanza) esile ma braccia forti, e una certa esperienza sul campo (ehm), affinata grazie a Internet e a molti tentativi ed errori, ma anche non poche soddisfazioni. Prendersi cura di creature viventi procura sempre molta gioia, che si tratti di figli (con relative ansie), animali (vero, piccola Principessa di casa?)

o, appunto, vegetali.

A presto!

Dov’è finita la mia ironia?

Qualcuno l’ha vista? Non la trovo più.

La hall è vuota, salgo su per lo scalone, ma la stanza giusta non c’è. Dal numero 26 si passa direttamente al 32. Forse dovrei giocarli al lotto. Sono in bilico. Nei sogni siamo sempre in bilico, ci hai fatto caso? Dev’esserci una ragione, per tutti questi numeri in disordine. Guardo oltre, si passa al 38 e poi forse al 28, o al 24, non ricordo bene.

Esco dall’hotel, vengo a cercarti, ma non riconosco le strade. Torno indietro, vedo il bar, caffè Moretto, capisco che sono a Milano, ma non capisco perché.

Qualcosa mi sveglia.

Nel sogno, non sono riuscita a trovare la stanza, né te, e neanche l’ironia.

Invecchiare con grazia

Invecchiare con grazia. Già, è una parola. Ci si prova, in mancanza di valide alternative; ma resta il fatto che l’immagine di te che hai dentro resta più o meno uguale, ed è quella che ti aspetti di ritrovare nello specchio, mentre lo specchio racconta un’altra storia, e la faccia che ci vedi lì smette di corrispondere a quella che credevi di conoscere meglio di qualunque altra.

Si invecchia comunque, con grazia o senza. E la mareggiata mi lascia un sapore dolceamaro di scelte fatte per far piacere ad altri più che a me stessa. Scelte che qualche volta si sono rivelate comunque giuste, e qualche volta no. Qualche volta mi hanno comunque portato, attraverso percorsi tortuosi e nient’affatto geometrici, verso la realizzazione di un qualche tipo di sogno, e qualche volta no. È il momento per me di decidere davvero, una volta per tutte, quello che desidero fare, e imperniare la mia vita su quel desiderio.

In uno dei primi ricordi che ho, ero sotto un tavolo.

Credo fosse una stanza dei giochi. Da successivi racconti di mia madre, ho dedotto che forse si trattava del posto dove mi aveva portato una volta o due nel tentativo, del tutto fallimentare, di farmi avvicinare all’inglese prima del tempo. Era la lingua di mio padre, dopotutto. Ed era per questo che lo odiavo, ed è per questo che dopo l’ho tanto amato.

Ecco, penso di aver trascorso un sacco di tempo sotto qualche tavolo, nella mia vita. Di solito era un tavolo metaforico, ma la ragione era sempre la stessa: volevo giocare, volevo conoscere gli altri, volevo scrivere, volevo fare la regista, la professoressa, volevo lavorare all’estero, volevo, volevo, volevo; ma la paura è (quasi) sempre stata più forte.

All’asilo, nel pomeriggio, ci facevano stare con “le mani in seconda”, braccia appoggiate al banco e testa sulle braccia, per fare il riposino. Avevo tante cose da fare, da immaginare, ed ero lì costretta su quel maledetto banco a far finta di dormire.

Da lì mi è rimasta una fortissima resistenza a dormire al pomeriggio – non lo faccio mai, a meno che non sia completamente sfinita – e un odore di pasta al sugo di cui non ho mai più sentito l’uguale, ma che doveva essere davvero insopportabile. Qualche volta, mi pare di avvertire qualcosa di simile, ed è sempre in luoghi e momenti sgradevoli. Avrei preferito le madeleines.

Dovevo apparire davvero infelice, e mia madre decise di risolvere la situazione. Mi mandò a scuola in anticipo, a cinque anni, a costo di iscrivermi a una scuola privata, perché quella pubblica al tempo non accettava primini sotto i sei anni.

Di quella scuola non ho praticamente nessun ricordo, pare che tutto sommato mi trovassi abbastanza bene. Solo che ebbero la cattiva idea di dire a mia madre che ero un genio. Se lei aveva avuto qualche dubbio sul farmi proseguire le elementari lì, quella frase infelice lo eliminò definitivamente: non che ci credesse molto, a quella faccenda del genio, ma anche la vaga possibilità che io potessi essere non “normale” la metteva in ansia, e a ogni buon conto mi iscrisse alla scuola pubblica già dalla seconda. Che io fossi “normale” è sempre stato il suo più grande desiderio per me, qualunque cosa questo significhi.

Sarei diventata un genio, se lei non avesse avuto questa ansia?

Improbabile. Molto improbabile. Tanto per cominciare, sono sempre stata troppo dispersiva.

Eppure, il tarlo… sarei diventata una scrittrice all’età giusta? Avrei smesso di inseguire una passione nuova ogni venti giorni e mi sarei accasata con uno o due sogni grandi, ardenti abbastanza da costruirci intorno una vita?

Improbabile, molto improbabile, anche questo. Soprattutto visto come sono andate le cose nella parte successiva della mia infanzia. E comunque, è passato. Quello che conta è l’oggi.

Il fatto è che oggi mi ritrovo con un sacco di passioni, sogni, cose, pensieri, e quando credo di essermi messa in testa di realizzare davvero qualcosa, mi scontro con una sfilza di ormai. Parola che odio, ma tant’è. La faccia che conosco non lo direbbe, ma lo specchio, il malefico specchio dei miei stivali, qualche volta mi illude, dai, su, sei sempre tu, quella di sempre, più o meno, qualche segno, che sarà mai, e poi torna con la sua liscia superficie argentata e maligna a tormentarmi ancora con quella stessa parola sussurrata all’orecchio. Ormai

A volte, invece, ho ancora la sensazione di avere tutto il tempo davanti. Mentre ascolto la musica che ascoltavo anni fa, oppure quella che avrei dovuto ascoltare, ma scoprirla adesso è un privilegio, il privilegio di chi si emoziona per la prima volta e pensa che nessuno mai abbia provato niente di simile; e poi la musica nuova, quella che per la maggior parte delle persone della mia età è rumore; e anche per me, spesso. Ma qualche volta mi piace, e mi commuovo all’idea che nulla si distrugge e tutto si ricrea, e le cose belle non muoiono, comunque. E scopro e riscopro il cinema (e le serie tv). E ricomincio a leggere. E penso di tornare su libri che ho dimenticato, e di riempirmi la libreria e la testa di libri nuovi, e di andare a teatro. E il deltaplano, e il cavallo, il pianoforte, il giardino, i cani e i cavalli (futuri), la patente da prendere, la bici elettrica, e tutte queste salite e discese… quanto tempo ho? Tutto quello che c’è, giorni, ore, minuti e secondi. Ma più di ogni altra cosa, il senso di infinito me lo dà scrivere.

Scrivere è una fatica enorme. Non sempre ne ho voglia, ma è una fiamma che brucia, sempre. A volte penso che te lo devo, ma no, lo devo a me. Di tutte quelle cose, passioni, voglie e quant’altro, è quella che dura da più tempo; insieme al giardino, forse, ma scrivere mi costa di più, mi prosciuga molto più di quanto non lo faccia vangare e zappare ed estirpare erbacce. Tu sai che più forte è la corrente di amore e desiderio che ti trascina verso un mestiere o una passione (o un mestiere che sia anche una passione, e viceversa), più forte è quel senso di gioia e appagamento che riesce a farti provare, più intenso è il dolore che sta dall’altra parte della medaglia. E viceversa.

Ormai lo buttiamo nel tritarifiuti insieme allo sfalcio e ne facciamo pacciamatura per il giardino, che dici? Nel giardino di agosto fioriscono le dalie, l’ibisco, la vinca, e persino le rose. Quest’anno ci pianto anche un hamamelis e un calicanto, per avere colore il prossimo inverno. E insomma, lo vedi, io sto scrivendo.