Del viaggiare di notte

– Dopo il secondo giro del mondo avresti potuto fermarti – dice Luna. Luna non si chiama davvero così, è un soprannome che le avevamo dato da ragazzi perché aveva le gambe visibilmente storte, come due mezze lune ricurve. Era nato da uno scherzo crudele, ma a lei è piaciuto, e Luna è rimasta. Nessuno di noi ricorda più i veri nomi che avevamo un tempo.
– Avrei anche potuto essere felice – dice il Sognatore, con l’abituale sperdimento negli occhi di un vacuo celeste. – Sì, sarei stato felice, forse. Solo i nomadi hanno trovato davvero la ricetta della felicità, lo sapevate? Ma viaggiare di notte, questo proprio non lo capisco. Perché viaggiare, se non vedi quello che c’è sulla tua strada?
No, nessuno di loro poteva capire, non ancora. Viaggiare di notte, aspettare le rondini e poi spiccare il volo in mezzo a loro, e brillare in mezzo alle stelle, e dondolarsi su quella mezzaluna rovesciata d’oriente come in una culla. La luna notturna non è mai stata esplorata, nessun uomo ci ha mai mosso sopra un passo. E’ fatta ancora di formaggio, e puoi trovarla soltanto in fondo a un pozzo.
Jalila forse avrebbe potuto capire, ma Jalila è tornata nel deserto, e io continuo a camminare, perché solo se cammini le rondini si fermano a guardarti, interrompono il volo e ti accolgono tra loro come un compagno.
Luna si versa un bicchiere di whisky, sorride appena come una Monna Lisa dalle gambe storte. Il Sognatore si riscuote dai suoi sogni. – Che ora abbiamo fatto? – dice, pensando già al lavoro che lo aspetta domani, a quanto potrà chiedere per la lavatrice rotta di quella rompiballe della signora Granelli.
La Bambolina, fuori luogo come sempre, interrompe il suo silenzio che dura ormai da diverse ore per sospirare stancamente: – sono le nove e venticinque. Di sera. – Come se ci fosse bisogno di specificarlo. Come se davvero il Sognatore avesse avuto bisogno di conoscere l’ora. Come se questa fosse una giornata normale tra amici.
Finalmente se ne sono andati. Il cielo è quasi blu, s’indovina che farà scuro tra poco. La luna è già lì, scolorita e blandamente in attesa, forse non di me, ma delle stelle che stanno per tornare visibili. Le rondini hanno iniziato i loro voli composti e geometrici. Meglio che mi metta in cammino. Non è breve, la strada.

PECCATI CAPITALI – Avarizia

Non è ciò che ho, la mia ossessione, nessuna ricchezza può saziare il vuoto della mia anima, non venero il mio oro, né mi rende felice, al contrario, è solo il terrore di non averlo più che mi spinge a guardarlo e riguardarlo come un innamorato, a non lasciarlo mai, a sorvegliarne la crescita come una madre fa col proprio figlio. Anche un granello di sabbia appiccicato sotto le mie scarpe, a doverlo cedere, mi farebbe precipitare in un vortice di infinita mancanza, perché ho nel cuore un pozzo che non può riempirsi mai. E’ odio, non amore, quello che sento, e se potessi, se ne avessi il coraggio, seppellirei il mio tesoro dove neppure io sarei più in grado di trovarlo. Invece, mi tengo stretta ogni moneta, ogni singolo frammento di ricordo, per non perdere, vivendo, neanche la più piccola parte di me stesso.

Q. Massys, Gli esattori delle tasse

Rieccomi! Sono tornata, mi è mancato scrivere e mi è mancato leggere, ma ora finalmente si riprende! L’ultimo peccato non poteva restare in sospeso, trovo che questo sia il peccato di chi trattiene tutto, non lascia andare nulla, non sa “donarsi” e affidarsi agli altri  ma in fondo neppure a se stesso, accumula e accumula perché vorrebbe trattenere la vita con tutto ciò che ha dentro di prezioso, ed è proprio per questo che la perde.

PECCATI CAPITALI – Gola

L’unica carezza che mi importi è quella che un intingolo cucinato con amore fa alla tua lingua, prima di scendere lentamente nel palato e torturarti con maligna dolcezza. L’unico senso del mio vagare per il mondo è pregustare, centellinare, divorare, succhio il miele della vita derubando gli dèi del loro nettare, lasciando che sia la mia bocca a segnare il confine tra la terra e il cielo.

Food of the imagination – from ‘Hook’

Anche la gola può essere terribile ed è forse il peccato che più di ogni altro rappresenta l’avidità, la smania di avere sempre di più, di non fermarsi mai a godere di quello che c’è, perché è come se valesse sempre di più quello che non c’è.

Tuttavia, c’è anche un’altra faccia, come per tutti gli altri peccati, forse, o quasi, ed è la faccia, in questo caso, direi opposta dell’altra. Il sapersi godere la vita, le cose buone che regala, con allegria.

E allora, ho scelto come immagine la cena dei Bambini Sperduti, che nel film ‘Hook’ segue immediatamente una delle scene che amo di più in tutto il cinema, la ‘Battaglia del Cibo’: una battaglia meravigliosamente dissacrante e liberatoria, che tra l’altro dipinge senza bisogno di parole un’idea bellissima, e cioè che la fantasia, il gioco, e la libertà di essere se stessi nutrono meglio di qualunque cibo. Con la cultura, come ben sappiamo, si mangia benissimo 😀

PECCATI CAPITALI – Superbia

E’ superbia l’orgoglio d’avere in sé una scintilla di divino, superbia la presunzione di poter cercare da sé la strada, tracciare il proprio cammino, costruirsi un dio a propria immagine e somiglianza. E’ vero peccato, la superbia? Non è forse l’umanità al suo massimo splendore, quella che ruba il fuoco agli dei perché sa che gli uomini sapranno, se vogliono, farne miglior uso? E’ virtù la modestia, o solo la viltà di chi finge di non potere solo perché non vuole? Il castigo non potrà, credo, cancellare l’ironia del condannato che in fondo sa di essere migliore del suo assassino.

Superbia

PECCATI CAPITALI – Invidia

Con guanti foderati di spine mi lacero la carne, la gioia altrui è il punteruolo con cui mi ferisco. Un serpente si attorciglia al mio ventre e si contorce, e sputa atroci umori di esacerbata bile. Verde, viscido, repellente all’odore di putredine, al tatto delle sue scaglie obbrobriose, o a sentirne il suono sibilante, la sua lingua è un tormento infinito e bifido, finge di condannare e dileggiare la fortuna degli stranieri, ma uccide me, che esausta consumo la vita desiderando di essere un altro.

Invidia

Invidia

PECCATI CAPITALI – Ira

Mi grandina addosso un eccesso di rabbia amara. E’ pietra rovente, incandescente nel cielo rosso che ho davanti agli occhi e brucia, brucia e non si spegne, sono un lago di lava queste lacrime nate dall’odio. Rabbia, un’unghia conficcata nella pelle della schiena. Un ghirigoro di aceto e veleno a ubriacarmi, un ghigno di ferro a sbranarmi l’innocenza: Mi illudo di sfuggire al peccato, non sono io ad agire con furia, mi dico, è la furia che mi agisce. Ma sono io a morire di quest’ordigno che io stessa ho allacciato alla mia cintura.

Anger

PECCATI CAPITALI – Accidia

Ecco il secondo peccato capitale 🙂

Lentamente lascio che la strada mi porti.
Non ho meta né desiderio di guardarmi intorno.
L’indifferenza ti preserva. Lascio che i pensieri mi scivolino via dal cervello, perché anche i pensieri possono far male. Per vivere bisogna cercare e io non voglio cercare niente. Poter scomparire, così, senza uccidersi né morire, perché anche quella, dopotutto, sarebbe un’azione. Io vorrei semplicemente non esserci. Esserci è dolore, così fingo di essere già scomparsa, dissolta nella sabbia, avvolta in una sciarpa di foglie cadute, confusa in mezzo all’eco delle voci, senza sangue né linfa, senza desiderio né identità, senza nascita, senza sentimenti d’amore, amicizia o altro. Senza.

PECCATI CAPITALI – Lussuria (Lilith)

Sono stata dea madre, il volto donna di dio,
demone del vento, vivevo nel tronco dei salici
voi diceste che mi aveva creata di polvere
argilla e terra, fuoco e aria, dell’uomo compagna
ma Adamo mi volle sottomessa in ogni cosa
– compreso l’amore –
E il vostro dio patriarca gli diede ragione
Allora pronunciai il suo nome – bestemmia, diceste –
E fuggii sul mar rosso, con demoni lascivi
Perché per loro, per loro non era prigione l’amore
Allora mi chiamaste regina di lussuria
– perché temete l’amore –
E pronunciaste formule per proteggere i figli
Col nome di Eva tracciaste cerchi intorno alle culle
Eva che vi portò sciagura, la preferiste a me
Preferiste una donna che partoriva nel dolore
E il piacere della carne lo chiamaste peccato
– perché non conoscete amore –
E quando i vostri figli ridevano nel sonno
Non la credeste gioia, mi deste la colpa di volerli rapire
poiché odiate il riso, amate l’angoscia
vi tormentate con domande su ciò che sia bene o male
lamentate la brevità della vita e vi scordate di viverla
– perché l’amore uccide –
Venni di notte come gufo a sedurre i vostri ragazzi
I mariti cui mai avreste dato piacere
Lo conoscevano tra le mie braccia per la prima volta
Per questo ancora mi deste un nome osceno
Perché nulla di ciò che è bello vi può piacere
e tutto sporcate coi vostri pensieri immondi
– così uccidete l’amore
Diceste che succhiavo la carne e il sangue dei vostri uomini
Voi piuttosto! Negando la vostra pelle al loro sguardo e alle mani
Avete divorato la loro linfa vitale, che io di notte restituivo
Avete scelto per me un altro nome, cambiato la mia storia
Ma mi resta l’unico regno su cui mai avrete alcun potere
– la parte opposta dello specchio

Tempo fa avevo scritto alcune cose sui peccati capitali, parte in versi, parte in prosa come brevissimi “racconti” o riflessioni. Pensavo di postarli un po’ per volta, questo è il primo.

Il sigillo di Lilith

Così vicino al cuore / So close to my heart

Ti ho così vicino al cuore che anche senza guardare ti vedo, e ti ricordo anche senza memoria. Lo scintillio fugace di un pensiero basta alla mia sopravvivenza, ché mi è letale restare per troppo tempo senza aprire le tue finestre e guardare il mio cielo attraverso i tuoi occhi. Quanto alla terra, la mia è la tua, è sempre stata la stessa, la geografia qui non c’entra. E’ la pazienza di tracciare non solo la propria strada, ma l’intero paesaggio intorno: montagne, corsi d’acqua, paesi, città, grattacieli, animali, persone, perché le tue scelte lasciano orme, impronte sottili e discrete, e tanto più incancellabili. Tutto cambia e si ricrea costantemente al tuo passaggio. E tu sei per me l’onda gigantesca dell’uragano e la solida nave che mi protegge, il ponte su cui camminare al sicuro e la corrente che trascina via, il piatto e la bottiglia vuota e il cibo e il vino di cui riempirli. Sei la quercia contro cui mi abbandono, a cui offro la mia mente nuda e la mia pelle calda, perché mi fido della tua luce e della tua ombra, e del mio corpo che ti cerca e della mia ragione che vuole conoscere tutto ciò che tu conoscevi.

Ah, questa follia, questo sprazzo di follia che m’inquieta un poco, ma di cui non potrei far senza. Tu del resto sapevi che è molto più irragionevole perderla, quella scintilla. E io so, e chi mi è vicino fortunatamente sa, che il cuore è una piccola cosa buffa e confusa, che a volte incespica e s’ingarbuglia ma ha dentro uno spazio infinito.

Chissà quanti blocchi quadrati avrai infilato nei fori rotondi, per rimettere in discussione ogni volta tutto ciò che si fa solo perché si è sempre fatto così. Non è possibile suscitare stupore, se non si è capaci di sorprendere se stessi per primi, guardando al lato buffo e inusuale delle cose più ovvie. Non c’è mai nulla di normale, nella vita. Non deve esserci. E allora anche sedersi a faccia in giù equivale a interrogarsi, perché non bisogna mai smettere di farsi domande sulle abitudini: non ce n’è forse neanche una, di cui conosciamo fino in fondo la ragione, a guardar bene.

Tra le tue frasi, che setaccio come un cercatore d’oro il fiume, cerco i dettagli preziosi che rivelino, pezzettino per pezzettino, le tue fonti d’ispirazione, i modelli che hai scelto per diventare come volevi essere, a modo tuo, perché io possa sceglierli a mia volta per diventare come voglio essere, assomigliarti a modo mio. Mi approprio di ogni cosa tua, con rispetto infinito ma spudoratamente, perché so che non potrebbe mai succedermi di non amare qualcosa, qualunque cosa, che tu abbia amato.

You’re so close to my heart that I can see you even without looking, and I can remember even without memory. The fleeting spark of a thought is enough to keep me alive, as I couldn’t live too long without opening your windows and looking at my sky through your eyes. As for the earth, mine is yours, it’s always been the same, geography has nothing to do with this. It’s the patience to not only chart your course, but the landscape around, entirely: mountains, streams, villages, cities, skyscrapers, animals, people, because your choices leave marks, footprints that are as subtle and discreet as they are indelible. Everything changes and recreates itself, with every step of yours. And to me, you are the giant wave of the hurricane and the solid ship that protects me, the bridge, on which I walk safely, and the current that pulls me away, the empty plate and bottle, and the food and wine, with which they can be filled. You are the oak, against which I abandon myself, to which I offer my bare mind and my warm skin, because I trust your light and your shadow, and I trust my body that is seeking you and my reason that wants to know everything you knew.

Ah, this madness, this spark of madness that disquiets me a little, and of which I couldn’t do without. You knew, indeed, that it is much more unreasonable to lose that spark. And I know, and those who are close to me fortunately know, that our heart is a confused little thing, that sometimes stumbles and gets entangled but inside, it has infinite space.

Who knows, how many square pegs will you have put into round holes in order to cast doubts, every time, on all that we do only because it’s always been done that way. You cannot amaze others if you don’t cultivate your own sense of wonder, by looking at the funny and unusual side of the plainest things. There is never anything normal, in life. There shouldn’t be. And thus, even sitting on your face means to put a question mark on something, because you shouldn’t ever stop challenging habits: there is not even one, maybe, of which we know the reason in full, on second thought.

Sifting through your sentences like a gold-seeker would do with a river, I look for the precious details that will reveal, bit by bit, your sources of inspiration, the models you chose to become what you wanted to be, your way, so that I may, in turn, choose them to become what I want to be, be like you in my own way. I take everything yours for myself, with infinite respect but unashamedly, because I know it could never happen that I don’t love something, anything, that you loved.