I don’t find the creative process in itself rewarding enough. I have to be honest-I want to reach an audience. (Il processo creativo in sé non è gratificante abbastanza per me. Devo essere sincero – quello che voglio è raggiungere un pubblico).

Ho ricominciato a ridere e piangere nello stesso film. Questo è un bene, per me. Ne avevo già parlato un po’ qui, perché non sono riuscita a guardarlo tutto d’un fiato, ne ho visto un po’ più della metà la prima volta, oggi l’ho rivisto tutto da principio e fino alla fine. Ho rivissuto le emozioni due volte, certo, ma almeno in parte, la seconda sapevo cosa aspettarmi. Qualcosa sapevo da tempo, ma solo per sentito dire. E’ ben diverso averlo già provato direttamente. E comunque, la parte che ancora non avevo visto mi è arrivata addosso oggi come un altro pugno allo stomaco. E’ andata a scavare dritto dritto in alcune delle mie paure. Giù a fondo in quella caratteristica tutta umana che è il modo in cui trattiamo i morti, e specialmente chi è morto in circostanze particolari. Quel desiderio, che nasce dalla nostra parte migliore, di sentirli più vicini di quanto non fossero, di attenuarne i difetti. Che però, quando viene portato agli estremi, diventa un sentimentalismo tanto melenso quanto falso (magari involontariamente falso, perché talvolta siamo davvero incapaci di fare i conti con la realtà).
Lance Clayton è un po’ la nemesi di John Keating: Robin stesso aveva richiamato quel personaggio in un’intervista, proprio per dire che questo è quasi l’opposto: uno scrittore fallito, un professore le cui lezioni sono disertate dagli studenti – i pochi che le frequentano fanno comunque cadere le braccia – e padre di Kyle, un adolescente disturbato, non troppo intelligente, rancoroso e dedito a giochi erotici piuttosto spinti. Lance coltiva ancora il sogno di scrivere un giorno un romanzo di successo, ma si è quasi rassegnato all’idea che si tratti di un sogno inutile, che non si realizzerà mai.
Quando Kyle muore accidentalmente durante uno dei suoi giochi erotici solitari, Lance cerca di far credere che si sia suicidato e scrive una nota d’addio che improvvisamente cambia l’atteggiamento dell’intera scuola. Tutti quelli che un tempo avevano odiato Kyle, ora si scoprono affranti e colpiti dalla sua profondità e sensibilità; lo stesso Lance viene fatto oggetto di attenzioni mai conosciute prima e di una solidarietà tutta basata su un sentimentalismo superficiale, che non regge alla prova dei fatti.
Quando tutti cominciano a chiedergli se Kyle non abbia mai scritto altro, Lance crea dal nulla un diario fittizio che ottiene proprio quel successo che lui aveva inseguito tanto a lungo, e che mai avrebbe voluto ottenere in quel modo. L’unico che rifugge da questa manifestazione ostentata di amore postumo è Andrew, l’amico-vittima di Kyle, che anche su di lui riversava tutto il suo disprezzo, pur continuando a cercarlo.
Bobcat Goldthwait aveva già lavorato con Robin, molti anni prima, in Shakes the Clown, affidandogli il ruolo minuscolo ma a lui congeniale di un mimo, e lui aveva sbrigliato tutta la sua gestualità e la sua carica ironica.
Lo humour di Goldthwait era già nero allora e non è cambiato, ma si è forse ingentilito, o forse tutta la gentilezza viene proprio dallo straordinario sguardo di lui, Robin, che riesce a comunicare solo con gli occhi un’infinita gamma di sentimenti che in una situazione così possono davvero convivere tutti insieme: dolore, consapevolezza dell’ìronia di ciò che accade, senso di colpa, l’idea di approfittare in qualche modo del proprio affetto, il senso di perdita, reso ancor più terribile dal fatto di avere ad oggetto qualcuno che era di per sé odioso, e che pure non potevi fare a meno di amare per il semplice fatto che era tuo figlio; la consapevolezza della propria falsità e dell’ipocrisia di tanti di coloro che ti circondano; il desiderio di piacere comunque a tutte quelle persone e al tempo stesso la voglia, il bisogno quasi fisico di essere libero; e molto altro ancora. Potrei suggerire qualche scena ma sono tutte significative. E’ un altro di quei film anche visivamente particolari.
Da tutto questo sgorga, davvero con la naturalezza dell’acqua, quella citazione che presa fuori contesto rischia di diventare l’ennesima manifestazione proprio di quel tipo di tributo troppo convenzionalmente mieloso che colpisce chi è già morto, in un certo senso uccidendolo due volte: all’inizio Lance raccontando di sé dice my biggest fear in life is that I’m going to end up all alone (la mia paura peggiore nella vita è di finire completamente solo). Dopo l’accaduto finisce per rendersi conto che l’affetto, l’amore, il vuoto che una persona ti lascia dentro, non ammettono surrogati e tantomeno l’insincerità, sia pure inconsapevole. I used to think the worst thing in life was to end up all alone. It’s not. The worst thing in life is ending up with people who make you feel all alone. (Una volta pensavo che la cosa peggiore nella vita fosse restare solo. Non è così. La cosa peggiore è finire con persone che ti fanno sentire solo). Il finale lascia più di una porta aperta alla speranza, perché da qualche parte la verità delle relazioni è sempre possibile trovarla.