L’ora del tè

È l’ora del tè, ho messo su il bollitore e mentre aspetto cerco un senso che non trovo. Certe ore passano lente, anche se le giornate, poi, corrono sempre via velocissime. A volte mi sembra che sarebbe bello vivere sempre così, scrivendo e perdendo tempo e bevendo tè mentre, ispirata da qualche scrittore a me caro, immagino vite avventurose, ma in fondo del tutto avulse dalla realtà, tra i moli di New Orleans, foschie artiche, notti di chiacchiere e racconti pubblicati su riviste letterarie. La realtà del resto mi piace pochissimo, ora, ma forse mi è sempre piaciuta pochissimo. La vita, invece, “che vita strana e bella è questa… incredibile e incantevole come il mare. È difficile dire addio. Ci sono molte cose che potrei dire ora, ma non le dirò, così, se non dovessi tornare mai più, nessuno mi piangerà. Ecco perché me ne vado, tranquillamente, con i miei progetti, e non faccio voti e non mi aspetto nulla, ma amo ogni cosa” (J. Keoruac, Lettere dalla Beat Generation, traduzione di Silvia Piraccini).

Il tè è pronto.

Pallottolina di pelo

Sono sempre stata circondata da gatti, da che mi ricordo. Il primo non era nostro, ma circolava per il giardino del condominio in cui vivevamo. Era tutto nero, e spelacchiatissimo, non senza ragione: infatti mi attaccò la tigna in un’epoca in cui non era come adesso, una cremina e via. Dovetti stare in ospedale alcuni giorni e ricordo il fazzoletto da befana in testa per coprire i capelli rasati, e un ragazzino tremendo che si chiamava Ciro e che forse fu la prima persona che odiai davvero nella mia vita. Comunque neanche questo riuscì a spegnere la mia simpatia streghesca per i gatti neri. Dopo ne abbiamo avuti tanti di ogni colore, ma neri in effetti no, a pensarci. Forse perché sono abbastanza rari, almeno tra i trovatelli.

Quello che mi è rimasto di più nel cuore, prima di Tippete, è stato Paciughino, tutto rosso, di un’intelligenza da non credere, grande come un leoncino e bello come il sole.

Tippete è rimasto con noi diciassette anni, ha riempito tanti vuoti e ne ha lasciato uno enorme. Abbiamo aspettato un po’, ma alla fine, quando abbiamo saputo di questa pallottolina di pelo che tra volpi e macchine si trovava davvero in serissimo pericolo, non abbiamo resistito. Forse la chiameremo Nosy, ma ancora non siamo proprio sicurissimi, comunque ci ha catturati subito. Sembrava spaventatissima, è rimasta un giorno e una notte in un minuscolo spazietto irraggiungibile per noi umani, ma nonostante le apparenze, è curiosa e spericolata: un mese e mezzo di roba e già si arrampica su qualunque oggetto arrampicabile (e ci tenta anche con quelli che non lo sono). E nonostante la paura, la zampetta sulla mano me l’ha messa. Le unghiette fuori, ma ad ogni costo doveva capire se poteva fidarsi. È un amore!

 

 

Cinema anni ’20 – Underworld

Ovvero Le Notti di Chicago, di Joseph Von Sternberg (1927), con Clive Brook (“Rolls-Royce”), Evelyn Brent (“Feathers”) e George Bancroft (“The Bull” Weed). Forse il primo gangster movie, all’epoca colpì sia per il soggetto, sia per il modo in cui era trattato, che avrebbe poi ispirato i vari film successivi dello stesso genere. Bello, bello, bello, era consigliatissimo su Mymovies ma mi è piaciuto molto al di là delle mie aspettative.

Ingredienti per noi forse scontati, il gangster, la pupa del gangster, un amore contrastato, il mondo del proibizionismo, mai citato ma ben presente, allora però dovevano essere davvero innovativi e questo secondo me si percepisce. L’ho trovato ironico, a tratti divertente, a tratti denso di suspence e la scena del ballo dei malavitosi è splendida.

Non sono quasi mai certa del mio intuito quando si tratta di recitazione, ma in questo caso ho avuto ragione. Non conoscevo Clive Brook, l’ho molto apprezzato e ho poi scoperto che era uno degli attori più importanti del muto, passato poi al sonoro con un ottimo successo e molti bei film all’attivo.

La carriera di George Bancroft è stata molto più breve, almeno nei ruoli principali, ma con alcune punte interessanti, e con un seguito da caratterista tutt’altro che trascurabile.

Evelyn Brent è davvero bella e il suo sguardo le ha fruttato alcuni bei ruoli, anche se non forse tanti quanti ci si sarebbe potuti aspettare. Consigliatissimo, per quel che vale, anche da me. E con questo spero di riprendere infine alcune delle rubriche da tempo trascurate, il cinema del martedì, i blog del sabato, i libri della domenica e chissà, forse anche il Robin’s Monday, ma devo vedere cosa riesco a fare. Almeno quelle del cinema e dei libri spero proprio di sì!

Domanda (di servizio su cambio piano WP)

Mi propongono di aggiornare il piano di WP, ovviamente scegliendo una versione a pagamento, peraltro a prezzo scontato e davvero non molto alto. Il vantaggio sarebbe soprattutto, per me, un aumento dello spazio per poter caricare le foto, avendolo praticamente già esaurito e, forse ancora meglio, niente pubblicità che adesso i lettori devono sorbirsi mio malgrado. Mi blocca il timore, forse da dummy dell’informatica, di crearmi di fatto in questo modo un blog nuovo e quindi dover ricominciare tutto da capo, anche se immagino che non sia così, davvero non avrebbe senso. Qualcuno lo ha fatto? ne vale la pena?

Un riconoscimento in Liguria

Che bello, menzione d’onore al Premio Parasio di Imperia, un riconoscimento nella mia Regione! Non è proprio strettamente la prima volta, ma in generale ne ho ricevuti molti di più altrove. Inoltre, a questa poesia sono particolarmente legata.

IMPRONTE

S’illumina di mare la strada
e lascio impronte di sabbia.
Così passo il tempo:
guardando la forma dei miei piedi
tradita dal mutare delle onde.
E ti penso anche in quest’aria crespa
tra brume straniere.
Cerco la verità della tua faccia
il volo di un aquilone in festa
il silenzio quieto dell’attesa
che basta a se stessa
senza nulla da riempire.
Ho labbra d’esasperata sete
e niente più cicogne alla finestra.
L’estate è finita
e non ritorni.

Di istinto e di scrittura

Ha ragione alla fine chi dice: segui l’istinto. Che può ben essere aiutato da altri, quando percepisci che ti hanno “vista” e capita anche oltre le parole. Anche dalla ragione, ci mancherebbe. Ma alla fine devi sentire con forza dentro di te il momento in cui arrivi a qualcosa che è giusto per te, profondamente vero e onesto. Sentire che in fondo era quello che volevi scrivere davvero fin dall’inizio. Magari qualcuno se n’è accorto prima di te, ma solo tu puoi sapere fino a che punto. Per le rifiniture c’è sempre tempo, ma io so che con alcune osservazioni che ho accolto, il libro sta arrivando a un bellissimo traguardo, un momento in cui posso davvero posarlo e lasciare che vada, consapevole di aver dato quello che volevo e potevo dare. Grazie a chi lo ha letto e a chi, spero, lo leggerà.

Ancora sulle crisi fertili

Forse mi è utile essere più chiara sulla ragione della “crisi” di cui parlavo nel mio post precedente, perché se è stata interpretata come una crisi di ansia, o una crisi legata a un lasciare troppo spazio alla ragione rispetto all’istinto, forse un motivo c’è e (mi) vale la pena esplorarlo. In realtà succede questo: che quando altri leggono i tuoi scritti, specialmente se lo fanno con attenzione e coinvolgimento, ti aprono sempre nuovi scenari, punti di vista, nuove chiavi di interpretazione. Non è un caso se si dice che una volta che “lasci andare” una tua “opera”, di fatto non ti appartiene più, o comunque appartiene in buona misura anche ai lettori.

C’entra forse anche l’annosa questione “quanto è giusto andare incontro al pubblico” quando non si ha intenzione di scrivere un bestseller a tavolino, ma comunque ovviamente fa piacere che quanto si è scritto non  rimanga a prendere polvere sugli scaffali (altrimenti, tanto valeva lasciarlo nel cassetto e non condividerlo proprio). In realtà non è tanto questo che occupa la mia mente, anche perché il “pubblico” ha innumerevoli teste, diciamo così. Probabilmente entro certi limiti mettersi nei panni del lettore è giusto e necessario, ma resta il fatto che non ci si può mettere nei panni di “tutti” i lettori, ed è importante avere prima di tutto un’idea chiara di quello che “vogliamo dire” e di come “vogliamo dirlo”, della “nostra via”.

Però, ci sono prospettive e punti di vista che ti colpiscono, magari (anche) perché sono del tutto diversi da quelli che avevi in mente, eppure in qualche modo ti appartengono (altrimenti non ci sarebbe nessuna crisi). Ti spingono a metterti in discussione anche nel senso di chiederti “ho davvero detto quello che volevo dire, e nel modo in cui volevo dirlo”?

Forse chi scrive è portato a interrogarsi anche troppo, ma spesso interroga sé stesso, e può essere un peccato. La confusione momentanea che può venire da una lettura altrui forse è più proficua di ore e ore passate a leggere e rileggere da sé il proprio lavoro, e per questo parlavo di una crisi “fertile”. E mi serve anche parlarne qui, in quella che dopotutto, come ho detto altre volte, è la mia casa letteraria.

 

Crisi (vogliononvogliopossononposso)

Tra ieri sera e stamattina sono andata un po’ in crisi. Ci si sono messe un po’ di cose, la rinuncia definitiva al nuovo ufficio per ragioni di costi, l’esigenza, non sempre rispettata, che il mio lavoro venga riconosciuto in famiglia, certe critiche che non mando giù, metteteci anche l’età, un libro di poesie che avrebbe dovuto essere pubblicato questo mese ma mi sa che non vedrà la luce per un bel pezzo, e poi quest’altro libro che adesso sembra “non volermi lasciar andare”, mentre io ero propensa a ritenerlo finito, chiuso, e tornarci sopra ancora è un’esperienza intensa, forse preziosa ma non semplice.

Comunque, quando si dice che le crisi possono essere fertili, qualche volta è vero. E poi mi godo il felice momento con i ragazzi, il grande che ha passato l’esame di teoria per la patente e ha iniziato le guide, il “piccolo” che è più affettuoso che mai e inizia a guardarsi intorno per capire la persona che vorrebbe diventare, avendo un po’ più l’idea che può farcela.

Tanto che pensavo, e se ci rinunciassi del tutto? Non a scrivere, ovviamente (non potrei mai), ma a pubblicare. Se tornassi a scrivere solo per me e per chi ha voglia di leggere, senza questi stress, questi sbalzi d’umore, queste paturnie? Con maggiore libertà e forse maggiore freschezza?

In realtà, passato il momento di sconforto, è tornata l’idea di continuare a provarci, e vada come vada, però uff, che patema, come se non bastassero gli squilibri ormonali (che in realtà secondo me non ho affatto, è tutta solo tensione da celafarònoncelafaròvogliononvogliopossononpossodevo)…

Plenitudine

Qui anche le cose immobili si muovono
e scende dalle nuvole ai binari un sentore
come d’azzurro di stagione, una settembrina
luce di caffè amaro e di saudade
che mi scivola bene sulle spalle come un vestito su misura.
Non ho colpa della tempesta,
le mie mani non hanno mai fermato il vento
e mi canta nelle ossa
la lungimirante pazienza della morte,
ma è ora di scuotersi la polvere di dosso,
di levarsi e andare;
una rugiada ribelle d’assenza sulle labbra
mi ricolmerà di sete
offro il mio corpo a ogni respiro, alla fame d’eterno
alla carnalità densa, piena e dolente del mare
e vivo finché mi resta
la plenitudine del tempo.

Premio Oreste Pelagatti

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Composizione fotografica con fiori in thermos

 

Torno da una splendida giornata a Civitella del Tronto, questo è sicuramente uno dei premi più belli ai quali abbia partecipato: pomeriggio di “chiacchiere” informali ma appaganti tra premiati e Giuria, grande disponibilità, ascolto e scambio arricchente ma senza alcuna pesantezza, anzi. Passeggiata sotto il temporale seguita da doppio arcobaleno e ritorno del sole in un borgo davvero strepitosamente bello. Serata di premiazione sobria, con lo spazio lasciato alla lettura delle poesie e agli intermezzi musicali. Le poesie sono state lette dall’attrice Pamela Villoresi, che conoscevo di fama, ma che mi ha commossa oltremisura con la partecipazione emotiva, oltre alla bravura “tecnica” con cui ha interpretato i testi, è come se avesse scavato a fondo per trovare tutti gli strati possibili. Per me è stato come “riscoprire” la mia poesia sentendola in modo diverso, trovando il suo vero senso. Una sensazione stupenda che forse non riesco a rendere del tutto a parole. Anche la motivazione del premio mi è piaciuta tanto.

Della terna che si è aggiudicata il secondo premio, la prime due le trovate cliccando sui link: Parole d’argine e Un minuscolo silenzio la terza Sasso e libellula, quella che è stata letta ieri sera, la posto di nuovo qui:

SASSO E LIBELLULA

Sono sasso di fiume, la pietra levigata sull’alveo
immobile, eppure forgiata dal passaggio
delle luci sulla superficie trasparente del mattino,
del riverbero frammentato in gocce,
del tempo, e dell’acqua, e di molto amore.

Tu sei il fiume, irruente, irriverente, irrispettoso;
seppur gentile a tratti, mi lambisci i fianchi
accarezzi le mie forme, arrotondi gli spigoli;
ma non hai argini, né limiti o confini,
solo tempo, acqua, e molto amore.

Alle prime piogge, libero da ostacoli,
il tuo cammino si fa corsa, vortice, sfida alla corrente
e il tuo canto scroscio, e poi grido e vita,
a immaginarti così, si allenta il male lancinante
della distanza, la morsa della tenaglia attorno al cuore.

Attraversami dunque, valica la durezza dei contorni
Mi farò libellula e sfiorandoti acquieterò l’impeto
che solleva e scuote e mescola le onde col fondale
Mi muoverò leggera, come la luce che t’increspa
e corruga appena la tua pelle in un sorriso

Ma non ascoltarmi più, ora, circondami in silenzio
ch’io possa smarrirmi nel tuo scorrermi dentro
Portami con te, ricoprimi come fai con le stelle
trasformami in luce d’acqua, senza più corpo o nome
che non sia quello che mi vorrai dare

Credi forse che potrei mai aver paura?
Sono sasso, e libellula, e donna
e ti amo.