30. Hamlet

Hamlet

Come potete vedere dal titolo, siamo al trentesimo film con Robin Williams, ossia a circa un terzo della sua incredibile vita cinematografica.

In realtà qui mi è scappata una piccola inversione, The Secret Agent che ho recensito la settimana scorsa, veniva, a quanto pare, dopo questo e non prima, ma non credo sia un gran danno, l’anno è lo stesso. Nel 1996 ha fatto cinque film, che non sono pochi anche considerando che in tre di questi aveva un ruolo relativamente piccolo (ma comunque significativo). Infatti appartengono allo stesso periodo, oltre  Hamlet, sia Aladdin and the King of Thieves e appunto The Secret Agent, sia Jack, e soprattutto il grande The Birdcage (le prossime due puntate).

Avevo accennato qui a Hamlet circa un mese e mezzo fa, quando mi era arrivato il dvd polacco con Shakespeare che era diventato Szekspir e questo cast fantastellare: Kenneth Branagh, Julie Christie, Billy Chrystal, Gérard Depardieu, Charlton Heston, Derek Jakobi, Jack Lemmon, Robin Williams, Kate Winslet.

Adesso finalmente l’ho visto e posso dirlo: Hamlet è bellissimo. Quello che mi piace di Kenneth Branagh, al di là del fatto che, per quello che ne capisco, sia un ottimo se non grande attore, è che porta Shakespeare sul grande schermo mantenendo praticamente i dialoghi originali (questo film ha ricevuto anche una nomination all’Oscar per il miglior adattamento cinematografico di un testo teatrale). E’ una scommessa, e per quanto mi riguarda, una scommessa che ha sempre vinto, con Hamlet come con Henry V Much Ado About Nothing (che ho letteralmente adorato. E devo dire, credevo che ne avesse fatti di più, di film tratti da Shakespeare). Stranamente non ha mai vinto un Oscar né come attore né come regista, pur essendosi portato a casa un buon numero di altri riconoscimenti e varie nomination.

Poi ammetterò una cosa: ho trovato questo utilissimo e ben fatto sito, Sparknotes, dove nella categoria No Fear Shakespeare trovate un lavoro certosino di traduzione dei testi originali seicenteschi di tutte le opere shakespeariane in inglese moderno che per me sono stati una manna dal cielo. Ma conoscendone il significato, i testi in lingua originale sono musica. Musica, dico sul serio. Il dialogo con Osric, di cui parlerò subito, inizia da qui e poi potete andare avanti e indietro come meglio vi aggrada.

Della storia, ovviamente notissima, forse è bene dare qualche dettaglio appena, particolari che possono sfuggire alla memoria: Amleto, principe di Danimarca, viene chiamato alla vendetta dallo spirito del padre, assassinato dal fratello Claudio che adesso è re e ha anche sposato la madre di Amleto, Gertrude. Per mettere a punto il suo piano, Amleto si finge pazzo, anche con la fidanzata Ofelia. Approfittando dell’arrivo di un gruppo di attori, fa mettere in scena una recita in cui viene rappresentato un assassinio praticamente identico a quello commesso da Claudio ai danni del fratello. La reazione dello zio lo convince definitivamente della sua colpevolezza. La regina Gertrude, spaventata e irritata dal comportamento di Amleto, ha con lui un’aspra lite, nel corso della quale il padre di Ofelia, Polonio, li spia da dietro una tenda per accertarsi definitivamente se la follia di Amleto sia reale e se abbia o meno a che fare con l’amore per sua figlia. Vedendo muoversi la tenda, però, Amleto crede che lì sia nascosto Claudio e pugnala Polonio ripetutamente, uccidendolo e accorgendosi dell’errore solo troppo tardi. A quel punto Claudio capisce di avere da temere per la sua vita e manda due vecchie conoscenze di Amleto, suoi compagni di studi (i famosi Guildenstern e Rosenkrantz) per convincerlo a partire con loro per l’Inghilterra. Amleto parte, ma subodorando il tradimento si impossessa della lettera loro affidata da Claudio in cui si chiedeva al re di mettere Amleto a morte immediatamente. La sostituisce con un’altra in cui le vittime da condannare a morte saranno proprio Rosenkrantz e Guildenstern. Nel frattempo la povera Ofelia, a questo nuovo colpo della morte del padre impazzisce, finendo poco dopo per uccidersi. Suo fratello Laerte torna dalla Francia e cerca vendetta sia per il padre che per la sorella. Claudio lo convince che l’unico responsabile è Amleto e lo induce a sfidarlo a duello con una spada intinta in un veleno tale che anche solo un graffio causa inevitabilmente la morte di chi viene colpito. Per maggior sicurezza, Claudio prepara anche una coppa di vino avvelenato da far bere ad Amleto nel caso che non fosse colpito da Laerte. E’ questo il duello che fa precipitare tutto verso la carneficina finale: Amleto inizialmente sembra avere la meglio su Laerte. La madre brinda confidando nella sua vittoria ma beve dalla coppa avvelenata. Nel frattempo Laerte colpisce di striscio Amleto con la spada avvelenata, ma anche Amleto lo colpisce a sua volta. Laerte, vedendo la regina in fin di vita, capisce che tutto il disegno di Claudio era frutto della sua mente traditrice e chiede perdono ad Amleto, rivelandogli anche che gli restano ormai pochi minuti da vivere. Amleto costringe lo zio Claudio a bere il veleno rimasto e convince invece l’amico Orazio, che vorrebbe a sua volta uccidersi, a restare in vita per raccontare la storia. Nel frattempo le truppe del re di Norvegia Fortinbras hanno invaso la Danimarca e Fortinbras sarà destinato a sedere infine sul trono, visto che nessuno della famiglia reale danese è sopravvissuto.

E veniamo alla parte di Robin Williams, che come ormai sapete è quella che mi sta particolarmente a cuore. Interpreta Osric, giovane cortigiano di scarso cervello ma dal linguaggio alquanto fiorito, arrivato a corte solo grazie alle sue ricchezze e non alle sue capacità. Incaricato dal re Claudio di informare Amleto della sfida che lo aspetta con Laerte, ha con lui un dialogo infarcito di frasi altisonanti, preziosità che significano poi di fatto poco o niente, meravigliosa parodia di chi vuole farsi bello e apparire per darsi importanza, così preso dal proprio ruolo e dalla propria vanità da non accorgersi della propria inutilità e inconsistenza. Inutile dire che Robin Williams dimostra ancora una volta tutta la sua grandezza, ma visto che ne ho l’occasione lo dirò lo stesso. Ho visto questo film subito dopo The Secret Agent e non da molto ho riguardato anche gli altre tre film di quell’anno. In The Secret Agent, vi dicevo, impersonava uno di quegli uomini la cui mentalità avrebbe dato vita al nazismo. Qui in Hamlet un cortigiano sciocco e vanesio. In Aladdin quella sempre fantastica fonte di invenzioni linguistiche, battute comiche, voci, suoni, fantasia, immaginazione, divertimento che è il Genio. In Jack, un bambino che cresceva di quattro o cinque anni ogni anno, per cui si trovava ad avere, a dieci anni, un’età apparente di quaranta, quindi un uomo con lo sguardo innocente di un bambino (e vi assicuro che qualunque cosa si possa pensare del film, quello sguardo è difficile da dimenticare). E in The Birdcage un omosessuale che, mi viene da dire in questi giorni, sembrava avanti di vent’anni giusti giusti (forse qualcuno in più). Dentro ad ogni possibile aspetto del mondo, con tutto sé stesso.

LA LETTRICE DELLA DOMENICA – Le commedie di Oscar Wilde

Wilde - Le Commedie

L’importanza di chiamarsi Ernesto – ­Il ventaglio di Lady Windermere­ – Una donna senza importanza – ­Un marito ideale Un modo apparentemente leggero di mettere a nudo le ipocrisie e i luoghi comuni, un’ironia a volte caustica, più spesso benevola ma comunque pungente. Qua e là, qualche nota autobiografica, qualche riflessione più amara sparsa con tanta casualità che quasi non ci se ne accorge. Non è la risata che vi seppellirà, ma il sorriso di un uomo capace di guardare con l’occhio disincantato dell’anticonformista la società di cui pure, in qualche modo, fa parte egli stesso. Il sorriso che smaschera l’ipocrisia senza moralismi, eppure con un’etica profondissima nonostante le apparenze, o forse proprio per quelle. Perché solo i superficiali non giudicano dalle apparenze…
In italiano, purtroppo, si perdono in buona parte i fuochi d’artificio che Wilde è capace di fare con la lingua, che padroneggia splendidamente, destrutturandola e ricomponendola come in un caleidoscopio per mettere a nudo, ancora una volta, le frasi fatte che creano società artefatte.

SABATOBLOGGER 9 – I blog che seguo

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ammennicolidipensiero è un blog di attualità. E di storia, in un certo senso, quel senso in cui la storia è legata all’attualità e permette di meglio comprenderla. Segnalo questo post perché credo che il modo in cui è trattata la ricerca in Italia sia (mettiamola così) alquanto migliorabile e credo che tutto sommato possiamo ancora non arrenderci alla presunta inutilità di iniziative come uno “sciopero al contrario” o anche “solo” una raccolta di firme. Suggerisco anche questo perché l’ormai quasi compiuto sdoganamento del razzismo è un altro tema che mi sta a cuore (ancora per poco, forse, resterà il pietoso velo del “non è razzismo ma…”). Qui invece una bella, bella recensione di Inside Out, che definirei calorosa, e che spazia poi sull’importanza di osare perché un film (cartone animato o no) sia significativo (anche se sui film della Disney in parte dissento – ma solo in parte).

Discussioni concentriche (yziblog) Con Yzi ormai ci conosciamo da un po’ e credo che davvero sia molto difficile trovare qualcuno che non sia almeno passato dal suo blog. All’inizio, devo dire, mi metteva molto in soggezione (questo era prima di scoprire che qualcuno lo chiamava Yzi e cominciare a chiamarlo anch’io così, visto che dopotutto è anche parte del nome del blog). Del resto è un Faraone… ma per quanto la soggezione si sia ridotta, c’è qualcosa che non riesco a definire. E’ persona di vaste letture e notevole cultura cinematografica, ad esempio, certo. Ma non è solo questo, anzi, non è neanche tanto questo. Avverto una serietà di fondo che nonostante l’enorme numero di scambi spesso molto significativi (e altrettanto spesso esilaranti, e/o entrambe le cose) che con i suoi scritti riesce a suscitare, lascia intravedere un sostanziale amore per la solitudine. Solitudine intesa come un appartarsi, un bisogno di stare a una certa distanza per meglio osservare le cose, ma non per isolarsi o chiamarsi fuori. Solo per capire dove entrare, perché se decide di entrare in un luogo, la sensazione allora è che comunque ci entri davvero con mente e cuore. Tra i racconti (tutti molto inquietanti, quelli che sono riuscita a leggere finora almeno) ho scelto questo perché ci leggo una possibile interpretazione, scherzosa sì (“Scherzo” è il titolo del racconto) ma non troppo, della scrittura come qualcosa di molto vicino a una maledizione a cui non si può sfuggire, che lega e che può portar via pezzi della personalità di chi scrive e persino farlo precipitare, impazzire, in certo qual modo, nell’andare a esplorare parti oscure di sé e della vita. Questo post vale doppio perché coinvolge anche il prossimo blog di cui parlerò, Gintoki, e mette insieme due dei personaggi secondo me più interessanti (divertentemente interessanti, se mi passate il neologismo che comunque non presenterò alla Crusca) di questo mondo dei blog. E poi tra i disegni su richiesta, la mia giraffa. Così, perché è mia. Molti dei suoi disegni mi piacciono (e li trovo molto meno inquietanti dei racconti). Ma a quella sono affezionata in particolare (ovviamente).

Shock anafilattico (Gintoki) Anche Gintoki è conosciutissimo direi. Lui ha uno sguardo sul mondo che trovo fantastico. Uno sguardo da gatto (anche qui, se per caso ancora non conoscete l’origine del nome – e del motto – del blog, vi dirò che vale la pena approfondire), disincantato, ironico, inconsueto. A partire dai titoli che riesce a trovare e che gli invidio profondamente (come credo almeno una buona metà dei suoi lettori. forse tutti). Prendiamo l’ultimo (non è che il casco di banane debba essere omologato). Non so, dato che si parla tra l’altro di sogni, si potrebbe essere tentati di pensare che certi titoli gli vengano di notte. C’è chi dopo aver mangiato peperonata a cena ha gli incubi, c’è chi invece escogita titoli. E poi un altro dubbio che ha cominciato in questo momento ad attanagliarmi (colpa delle banane, evidentemente) è: sono i post a essere ispirati dai titoli o i titoli ad essere ispirati dal post? Come che sia, uno capace di trarre un titolo così e una serie di aneddoti, memorie e riflessioni semiserie perché ha visto una banana fermentata ha evidentemente un dono, uno sguardo sulla realtà tutto suo (o forse ha tentato l’esperimento, anch’esso citato nel post, di fumare bucce di banana essiccate?). E casualmente un altro post che mi è piaciuto tanto, questo, è quello che viene immediatamente prima di quello sulle banane e conferma decisamente una mia teoria, cioè che ci sia tanta, tanta sostanza dietro l’apparente (e anche reale, per fortuna) leggerezza di titoli e articoli. Che poi quest’ultimo post è parte di questa categoria (io e i fatti del mondo), che insieme a questa deliziosa descrizione di sé attraverso i libri letti è ancora un’altra prova di quella sostanza di cui dicevo, se ce ne fosse bisogno. Ma poi tutte la categorie in realtà. E il Gintoki show, ma ok, qui mi fermo e vi lascio andare da soli a fare le vostre scoperte.

Margraces’ s Blog le poesie di Margraces hanno dentro un dolore anche se lo alleggeriscono con la loro musicalità, ma il dolore ricorre neille parole, nella presenza di domande dense, nelle citazioni di altri autori, nella musica, nel parlare di sé (Award compresi), persino negli spazi bianchi lasciati tra un verso e l’altro. C’è solitudine, qualche  spigolo duro,ma molto amore per la scrittura, il suo dar forma  ai sentimenti. Molto introspettivo. Come sempre, suggerisco tre poesie in particolare, questaquesta e questa ma troverete molti bellissimi versi. Questi, tra altri, mi hanno colpito, per qualche ragione.

Dimmi che ti manco e dimmi
che hai me nei tuoi pensieri
solo me nei tuoi pensieri e

che non vivi se gli occhi miei
non vedi ancora, la voce
non senti sospirare come un soffio
vivo ardente d’argento marino caldo
sulla spalla tua alata
dell’ampiezza dei monti

Aurora Gray Writer Molto particolare la presentazione, è strano parlare di sé in terza persona ma è interessante e curioso l’approccio. Aurora si ripromette di cogliere gli aspetti positivi delle cose, presentare storie di sogni realizzabili e realizzati. Nella categoria “Inside Aurora” trovate “frammenti d’anima” come lei stessa li definisce, da ultimo questo che mi è molto piaciuto e anche questo. Tra i temi del giorno alcune domande interessanti riguardo per esempio al rapporto tra talenti e aspirazioni, al cambiamento e altri temi che coinvolgono un po’ tutti, con riferimenti a libri, film, canzoni e altro.

Buon viaggio tra le parole e a sabato prossimo!

IL BOSCO – PARTE III – VI segue

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Rifiutò il passaggio di Enrico per tornare a casa. Aveva bisogno di camminare, non sapeva neanche se voleva tornare subito a casa. Probabilmente no.
Si ritrovò fuori in balia di un clima che non pareva intenzionato ad aiutarla. Aveva scelto proprio una giornata bella fredda per la sua passeggiata. La strada che sembrava sferzata dalla tramontana e il cielo grigio e un rigurgito di inverno niente affatto allegro. Elisa, che testardamente metteva via gli abiti pesanti alla prima giornata un po’ più tiepida di marzo, rabbrividì e si strinse nella sua inutile giacchina, allacciando i due ancor più inutili bottoncini dorati. Vagabondò lo stesso per un po’, come senza meta, poi si decise a prendere un autobus, apparentemente incurante del numero e della direzione.
Dopo un po’ il mezzo passò la galleria del Portello e solo allora lei capì dove stava andando. Scese alla fermata successiva e prese la funicolare della Zecca, ritrovando per un momento vecchie emozioni tra l’odore ferroso della stazione e il trenino che in venti minuti la portava verso un posto che era, al tempo stesso, parte della città e un luogo lontanissimo, un remoto angolo del tempo e dello spazio capitato per sbaglio su uno dei colli genovesi.
La salita l’affannò un poco, era fuori allenamento. Passò il primo gruppo di villette, si inerpicò oltre. Com’era che da bambina quella strada le era parsa sempre così breve, che l’aveva fatta sempre senza pensarci per poi dimenticarsi con gli anni di qualunque fatica, se mai ce n’era stata?
Arrivò alla vecchia villa, era stata ridipinta di rosa, lei la ricordava bianca, possibile che si sbagliasse? No, la memoria era nitida. E davanti al cortiletto d’ingresso vide Miagolo. Lo riconobbe a stento, ma non c’era dubbio che fosse lui. Le fece persino un po’ di fusa, strappandole un sorriso, ma era invecchiato, grasso e pesante. Del resto doveva avere più di quindici anni. Era vecchio, e anche lei si sentiva vecchia. A ventisei anni, in quell’umore melodrammatico si vedeva davanti solo lunghi anni vuoti, pieni di silenzio e di piccoli rancori inespressi.
La cosa peggiore fu il vecchio Bosco. Gli alberi erano stati quasi tutti abbattuti da una gelata, qualche anno prima, e altri erano stati tagliati perché erano malati, o semplicemente perché qualcuno non ne aveva capito l’importanza. Le ferite del bosco le sentiva su di sé, i cambiamenti delle strade, la sparizione di cose conosciute era un oltraggio fatto al suo corpo e alla sua memoria, nella non-luce opaca di un’ora che non era né giorno né notte, senza sole e senza pioggia. Un giorno senza.
Elisa, sempre più malinconica, tornò a casa in autobus pensando e ripensando a cosa avrebbe potuto fare, quando una voce la riscosse.
– Accidenti, che faccia nera. Le previsioni davano pioggia per oggi pomeriggio, ma non una tempesta!
Elisa si girò di scatto e si trovò a scontrarsi dritta dritta con Marco.
– Marco! Ma che piacere vederti – disse con calore, alzandosi dal sedile. Come stai?
– Per adesso ancora in piedi, grazie. Però tra qualche anno potrei esserti grato se mi offri il posto.
– Sei sempre uguale – disse Elisa, ridendo. – Accidenti, è un secolo che non vedo più nessuno dei vecchi amici.
– Beh, per avere più di un secolo, direi che te li porti niente male. Però non è che a me faccia proprio tanto piacere sentirmi definire “vecchio”. E’ vero che magari fidanzarsi può dare quell’aria più matura, più vissuta, diciamo…
– Davvero, ti sei fidanzato?
– Ebbene sì, anche uno scapolone impenitente come me può cadere nella rete… se trova qualcuna abbastanza coraggiosa da volerlo irretire. Tra parentesi, mi sposo tra un paio di mesi, credo.
– Come sarebbe a dire “credo”? Non sai quando ti sposi o non sai se ti sposi?
– No, a dire la verità sono sicuro di sposarmi e sono anche ben contento, però sai com’è, preferisco non tenere il conto. E… – si inchinò con gesto teatrale – Perché non ci fai l’onore di venire al nostro matrimonio?
– Non so… – disse Elisa, dubbiosa. Non era sicura che fosse una buona idea. Però sapeva, adesso, di aver fatto male a trascurare gli amici. La risata da monello di Marco aveva un effetto refrigerante.
– E dai, su… Non può non farti piacere rivedere tutti… Andrea non ci sarà naturalmente, è in Inghilterra, e nemmeno Monica che è addirittura in America, ma gli altri verranno. Tra l’altro, indovina un po’: lo sai che Marisa ha sposato Filippo?
Accidenti, non sapeva neanche questo. Era stata davvero una pessima amica.
– Non lo sapevo, e me ne vergogno anche molto, però mi fa piacere, credo che fossero proprio fatti uno per l’altra. Come stanno?
– Benissimo, direi. Lei è sempre più saggia, sai, con l’età, e lui è sempre un’enciclopedia vivente, però è l’unica enciclopedia simpatica che io conosca.
Elisa sorrise ancora. Si sentiva già molto meglio. A proposito e tu cosa mi racconti? Ti sei fidanzata?
Elisa ebbe un attimo di sorpresa.
– Ho sposato Matteo, non lo sapevi? Ma già, non si siamo più visti né sentiti con nessuno, non potevi sapere niente. Abbiamo anche un bambino! E’ proprio assurdo, perdersi così un’amicizia.
– Beh, a questo c’è rimedio. Certo non pensavo che alla fine avresti sposato Matteo. Cosa fa lui adesso?
– Lavora nel ramo commerciale di un’azienda nel settore dei computer.
A questa domanda, si rese conto con un po’ di disagio, rispondeva sempre con le stesse parole dettate dall’abitudine, ma davvero ne sapeva molto poco. Sapeva – glielo aveva detto lui – che si occupava di rivedere i progetti altrui in modo da ottenere il massimo possibile riducendo al minimo le risorse, ma non è che avesse le idee molto chiare. Rapporto costi/benefici, ottimizzazione, efficienza, efficacia, le parole le ballavano nella testa come segni familiari ma indecifrabili, come una lingua con lo stesso alfabeto della sua, ma non per questo meno difficile da capire.
– Senti, io tra poco scendo, però prima mi devi promettere che vi farete vedere. – Disse Marco.
– D’accordo, ti prometto che faremo il possibile. – Rispose lei, e per il resto della giornata si sentì così allegra che si sorprese a canticchiare “Singing in the Rain” a piena voce sotto la doccia.
Quella sera anche Matteo percepì il suo cambiamento. Lei credeva che non notasse più niente, ma si sbagliava. Solo che lui non aveva mai saputo bene cosa dire e come comportarsi. Era consapevole che quella distanza che c’era tra loro era anche colpa sua, ma lei gli sembrava sempre così lontana, quasi irraggiungibile.
Eppure adesso aveva gli occhi luminosi, e lui si sorprese ad esserne preoccupato.
– Cosa hai fatto oggi? – le chiese. Era un po’ che non glielo domandava, o se lo faceva, aveva un tono tanto indifferente che sembrava non aspettarsi neppure una risposta. Ma questa volta era diverso.
– Sono stata alla mia vecchia casa, sai, dove stavo quando ero bambina, a rivedere il mio Bosco, però non è affatto come me lo ricordavo. Mi ha fatto tristezza vederlo così spoglio e tutto secco. Però poi al ritorno ho incontrato Marco e mi ha tirato un po’ su.
– Marco chi? – Chiese Matteo, e il suo tono le fece battere il cuore più forte. Possibile che fosse geloso?
– Non mi dire che non te lo ricordi. Era uno dei nostri amici della compagnia, il folletto del gruppo.
– Ah, certo che me lo ricordo – fece Matteo, visibilmente rilassato, anche se non proprio del tutto tranquillo.
– Ci ha invitati al suo matrimonio.
– Ah, si sposa – il tono di Matteo stava tornando piatto. Forse lui aveva volutamente rotto tutti i ponti. Rivedere tutti… gli sembrava che appartenessero al passato, e poi lui non era mai stato molto socievole. Aveva Elisa e gli bastava. Lei però interpretò quel tono in modo diverso.
– Senti, Matteo, io non posso continuare a tormentarmi, non voglio neanche drammatizzare o fare le cose più grandi di quello che sono, però da qualche tempo io mi sto chiedendo se mi ami ancora. Sei sempre così lontano, così freddo…
– Io? – Matteo si lasciò sfuggire un sorriso. – Credevo fossi tu quella lontana. Ma certo che ti amo ancora. Lo so che non sempre riesco a fartelo capire, ma in questi ultimi tempi anch’io mi sono chiesto spesso se tu mi amavi ancora.
– Sì, io… sì. – Disse Elisa. Stava pensando che si era sempre aspettata tanto da lui, un appoggio costante, il suo conforto e la sua tenerezza, e forse non era stata sempre capace di contraccambiarlo.
Forse era il momento giusto per ripensare concretamente a quel vago progetto di un altro figlio, voluto e troppo a lungo rimandato.
Provò a parlarne con Matteo, e il suo entusiasmo le allargò definitivamente il cuore. Lui cominciò a fare progetti, sogni, come se all’improvviso avesse aperto un tappo e stesse dando sfogo a tutta la gioia che era rimasta chiusa dentro per tanto tempo.

Vento in fiamme

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E’ come questo vento in fiamme, che parla e tu ascolti a mezza voce
immaginandoti spiga tra le spighe che si piegano al soffio, è giocoforza,
e però distratte, liberamente scompigliate in infinite direzioni, incuranti
dello spaventapasseri che spalanca le braccia invano, contorniato
dal cicaleccio delle gazze e dai passeri impudichi, ché avere i semi morsi
da stormi d’uccelli è cento volte meglio dello spietato taglio della falce,
e la grazia dello stelo sta nell’arrendersi alla leggerezza dei papaveri.
Chiederò perle di rugiada per il silenzio di queste notti grandi,
tremerò allo scintillio tenero degli astri sul fiume che mi benedice i fianchi
alla libellula che mi aleggia a fior di labbra, all’oro liquido e caldo dei fondali,
come il frutto consacrato sul ramo
che si sporge in uno sfiorare d’acqua e fronde.
A piedi nudi correrò sul greto, e il freddo bruciante avvolgerà le mie caviglie
perché meglio mi scuota la tempesta, il brivido impetuoso della pioggia;
poi ci accoglierà la carezza dell’erba, come un punto fermo nell’uragano,
questa luna di topazio e le stelle rincantucciate tra le nostre dita
e l’abbraccio tiepido dei corpi che usano il cielo come un manto.
Non ci vuole poi molto, un’altra vita appena, per distinguere i silenzi,
solo un’altra vita e basta.
Oggi ti capisco dal respiro.

UN LEONE A COLAZIONE 10 – Storie intorno all’adozione

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Il capitolo “Mago dei Paesi Lontani”, ossia associazioni riconosciute a cui ci si deve rivolgere per le adozioni internazionali, è molto delicato. L’associazione va scelta con cura e non è un caso se la maggior parte delle coppie sceglie una delle solite 4 o 5, a costo magari di sobbarcarsi viaggi dalla città (e regione) di origine verso altre città (e altre regioni), con costi che vanno ad aggiungersi a quelli (non modesti) che bisogna preventivare per l’iscrizione all’associazione, i costi dei corsi, del referente, della documentazione ecc. e naturalmente poi le spese da sostenere una volta ottenuto l’abbinamento.

Di recente qualche caso di cattiva gestione (o anche peggio), amplificato peraltro da alcuni giornali in maniera quasi scandalistica, ha contribuito probabilmente a un calo nelle adozioni internazionali che comunque in larga misura è, si presume, dovuto alla crisi economica, che non solo ci ha costretti a ridimensionare tutti i costi che non siano di mera sopravvivenza, ma ha anche forse spento un po’ la speranza per il futuro, condizione essenziale secondo me per avere un figlio.

Alcune di queste spese saranno rimborsate ma non tutte e questo è bene saperlo anche se può sembrare un capitolo “prosaico”, perché comunque se c’è il sogno di adottare un bambino all’estero (considerato anche che solitamente i tempi di attesa sono più brevi) questo è un argomento che va affrontato.

Ma ovviamente la cosa più importante è scegliere il “mago” giusto. La cosa migliore, anche prima di ottenere l’idoneità del tribunale, è cominciare ad avere qualche colloquio preliminare con diverse associazioni della vostra zona. L’impressione “a pelle” certo non è tutto ma aiuta più di quanto si creda. Un’associazione seria comunque vi darà il bilancio o comunque qualcosa di scritto in cui le spese siano sufficientemente dettagliate (non non abbiamo speso più di quanto ci fosse stato preventivato, a molti è successo). E soprattutto, un’associazione seria non vi lascerà soli nel tempo, spesso molto difficile, dell’attesa tra l’incarico e l’abbinamento e tra l’abbinamento e la partenza. Ci saranno incontri di gruppo, colloqui, disponibilità telefonica, ecc. Perché è un tempo in cui ci si innervosisce facilmente, ci si fa prendere da timori, preoccupazioni e comunque semplicemente l’attesa è snervante.

E comunque un corso preadottivo fatto bene vale tutta la fatica degli spostamenti (a noi è pesato molto spostarci per mesi regolarmente da Genova a Milano), vi metterà di fronte a situazioni che magari non immaginavate, dandovi poi anche qualche chiave per risolverle facendo leva sulle vostre risorse personali. Non quindi consigli generici che lasciano il tempo che trovano, ma qualcosa del tipo “questo è il tuo punto di forza quindi puoi fare così”.

Per stasera è tutto, sono settimane pesanti e cerco comunque di mantenere la regolarità delle rubriche ma se volete approfondire meglio un argomento o se avete qualche tema che vi sta a cuore ditemelo, sarebbe prezioso per me sapere quello che considerate più o meno utile o interessante.

Grazie!

When I give, I give myself

Ancora una volta, ho così tante parole affollate dal petto in su, verso l’esofago, sembrano accalcarsi come la ressa che si forma all’uscita di scuola quando piove, e non riesci più a distinguere un volto dall’altro e non sai se potrai cogliere il momento giusto, la classe giusta, il bambino giusto. Le parole giuste. Tante parole che premono sullo sterno in cerca di un’uscita ed è così difficile scriverle.
Il libro va avanti. Sì, ma non è facile, sai, scrivere di te. Non lo è mai stato. Rimarrei incantata a guardarti e ascoltarti, non fosse che la parola incantarsi ha sì in sé il lasciarsi affascinare, ammaliare, accogliere la magia, ma anche l’immobilità, l’interrompere un’azione e restarsene lì, fermi con lo sguardo fisso. Mentre io voglio fare. Oh, il libro va avanti, sì. Non avere dubbi su questo, troverò il tempo e le parole. Ma vedi come è già tutto un’associazione di idee, un aggrovigliarsi di cose da dire e di sentimenti e di quello che forse andrebbe tenuto per sé, o magari no. E c’è bisogno di tempo. Il tempo che a volte si dilata e sembra ce ne sia tanto da contare tutte le stelle, altre volte sfugge. Ma questo si sa.
Si scrive sempre di ciò che si ama, sì, l’ho detto e credo che sia vero, persino chi scrive di ciò che odia o teme lo fa per dare voce a quelle altre cose che ama. Nella rabbia c’è dolore, nel dolore c’è l’allegria ricevuta, il mondo che è stato nelle tue mani e che senza saperlo hai passato a me. L’amore, quindi. Solo perché sono stata così fortunata da passare nel momento e nel luogo giusto e raccoglierlo.
Ma quando sei così tanto dentro a ciò che scrivi, tutto sembra importante e al tempo stesso tutto sembra così poco. E l’amore confonde a volte, sai. Tutte quelle parole non sono solo parole, sono colori, luci, silenzi, immagini, passi percorsi così lontano e sguardi che arrivano diritti al cuore, impronte sulla sabbia e nella neve e nella terra ma anche nel cemento indurito dal tempo, perché ci sono passi che il mondo lo cambiano davvero, e non solo per il tempo della bassa marea, non ci se ne accorge subito, forse, ma poi ripercorrendo la strada la si trova diversa. Ecco, di tutte queste parole, dicevo, va sbrogliato il vero da quello che ho sognato o che vorrei, la poesia dai fatti, l’immaginazione e la creatività dalla tua vita – no, questo no perché in buona parte sono una cosa sola, ma forse non del tutto. I tuoi occhi e il tuo cuore magnifico non ci apparterranno mai completamente, e i tuoi pensieri… i tuoi pensieri però vorrei che ci appartenessero, lo so, anche quelli sempre fino a un certo punto, però… vorrei saperli districare da chi se ne appropria per spiegare, interpretare, delucidare, illustrare i tuoi torti avendo così tanta paura che tu possa aver avuto ragione su tutta la linea, quando hai guardato il mondo, quando lo hai indossato per meglio capirne la forma e restituircelo un poco più comprensibile e un poco, forse, anche migliore, quando hai amato tanto chi lo abitava, quando hai vissuto così tanto qualunque cosa, fine compresa. Ho letto queste parole di Pessoa stamattina, sul blog Interno poesia:

La morte è la curva della strada,
morire è solo non essere visto.
Se ascolto, sento il tuo passo
esistere come io esisto.

Mi hanno colpito, certo, però capisco che è venuto il momento che io legga tutto Whitman. e forse persino Bukowski, sì, per te lo farei, lo sai. Per te potrei anche imparare la Leggenda di Zelda, per decifrare le cose che cerco tra i pensieri degli altri e dar loro la mia voce, mantenendo intatta la tua. Saprei farlo, potrei farlo? Questo mi chiedo. Ascolto musica come se fosse una delle strade possibili verso la tua anima, come quando guardo le nuvole, cercando di leggerci dentro qualcosa di te che non posso vedere nemmeno nelle cose che hai fatto e detto perché sento che c’è qualcosa che va oltre e non so cosa sia, e neppure se ci sia davvero, come tutte quelle storie contro cui la mia ragione combatte, di sogni delicati e pieni di dolcezza, e di pettirossi e stelle cadenti.
Io le continuo a cercare quelle parole, e sono certa che anche con la pioggia più fitta e una foresta di ombrelli riuscirò a trovarle. Non so se saranno poi le mie, le tue, forse non è importante, ci sarà un po’ della mia voce nel mio raccontarti e un po’ della tua voce nel mio raccontarmi e forse andrà bene così, senza confini definiti a limitare un orizzonte che va conservato infinito.

When I give, I give myself (Walt Whitman)

IL BOSCO – PARTE III – VI

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VI

Nella foto i due bambini sembravano incredibilmente piccoli. Il sorriso era, del tutto evidentemente, forzato da chi li aveva ritratti. Poteva immaginarselo. “Un bel sorriso, su, per i vostri papà e mamma italiani. Non vorrete farvi vedere tristi. Non siete felici della vostra nuova famiglia?”. Qualcosa del genere. Anderson e Mauricio, obbedienti, avevano sorriso. Ma i loro occhi li smentivano. Che cosa avrebbero trovato? Come sarebbe stato quel paese in cui li stavano mandando? Chi erano quei due estranei che avrebbero dovuto abituarsi a chiamare papà e mamma? Queste erano le domande che Elisa leggeva sui loro faccini compunti. Magari, come al solito, lasciava galoppare troppo la fantasia.
Ma era felice per sua sorella. Aveva seguito abbastanza da vicino tutte le fasi del non brevissimo percorso di Enrico e Cristina, da quando avevano visto le due famiglie da cui lei li aveva mandati, si erano innamorati dei bambini come lei sapeva che sarebbe successo e si erano decisi a contattare un’associazione che si occupava di adozioni all’estero. Poi la richiesta al Tribunale, documenti, colloqui, il decreto, la scelta del paese – il Cile – poi ancora documenti, e adesso finalmente potevano vedere i loro figli almeno in fotografia e in breve sarebbero partiti per andarli a prendere.
– E’ strano sai – disse Cristina. – E’ proprio come una nascita, non lo credevo. Ho passato giorni in cui ogni cosa mi commuoveva, piangevo per un nonnulla, aspettavo e tremavo all’idea che qualcosa andasse storto, e adesso sono i miei bambini, è come se lo fossero sempre stati. Non sono bellissimi?
– Sì – confermò Elisa. – Sì, lo sono davvero.
Roby aveva compiuto un anno da poco. Il cuore le si strinse un po’ pensando a quei giorni in cui si alternavano con Matteo silenzi e battibecchi e l’assalivano prepotenti pensieri che non sapeva scacciare. Il tempo dei progetti per il bambino, della tenerezza e delle serate con la chitarra sembrava appartenere a un remoto passato.
Matteo sembrava sempre non saper bene cosa farne, di quel fagottino che gorgogliava, rideva e faceva gesti che lui non sapeva interpretare. Per lui la comunicazione era fatta di parole. Quando le strade conosciute non funzionavano, non sapendo o non volendo cercarne di nuove, si appartava, tanto da sembrare qualche volta addirittura indifferente. Il giorno del primo sorriso di Roby, Elisa lo aveva chiamato subito, ma lui stava guardando una partita ed era arrivato solo un’ora dopo, quando ormai il piccolo aveva fame e sonno e non più nessuna voglia di sorridere.
Matteo aveva giocherellato un po’ con lui, gli aveva fatto il solletico, aveva provato con le smorfie, ma non c’era stato niente da fare.
– Te lo meriti – aveva commentato Elisa, scherzando, ma con una punta di cattiveria.
Da quando aveva ricominciato a lavorare le cose erano sembrate peggiorare sempre di più. L’insolita freddezza di Matteo la preoccupava tanto da chiedersi, a volte, se non sarebbe stato più facile accontentarlo, dopotutto, piantarla con la magistratura, coi tribunali, gli avvocati, le cause, i processi, quel mondo rovesciato o, se non altro, sicuramente storto. Ma era anche una parte della realtà. Restare a casa a lucidare i pavimenti a specchio e preparare dolcetti non l’avrebbe cancellata.
Nel suo percorso di uditrice, ormai quasi al termine, aveva visto di tutto. A parte le cose grosse come l’Italcasse o lo scandalo petroli che, come tutti, si limitava a leggere sui giornali senza capirci granché, la corruzione più generalizzata la leggeva ogni giorni negli atti di processi apparentemente minori. Meschini titolari di azienducole che facevano la cresta falsificando i bilanci e finivano per mandare in rovina i loro fornitori e i loro dipendenti, industrie alimentari che mettevano nei cibi in scatola cose che non si sarebbero dovute usare neanche nelle trappole avvelenate per i topi, ristoranti con gli scarafaggi in cucina, tutto il mondo di piccoli furbi che evadevano sistematicamente le tasse come se rubare alla collettività fosse normale.
Tornava a casa raccontando.
– E’ sfiancante. Quelli che cercano di farsi togliere una multa perché il cognato è intimo amico della zia di un politico, o quelli che minacciano il medico pretendendo di non aspettare il loro turno perché una loro conoscente è cugina di secondo grado della moglie di un primario. E poi si permettono di criticare la società e dire che è corrotta.
– Già…
– Oggi ci è capitato un caso davvero pesante. Un uomo che ha lavorato per trent’anni, si è ammalato di tumore e lo hanno licenziato così, da un giorno all’altro. Lettera molto carina, sai, desideriamo ringraziarla della sua collaborazione preziosa e della sua lealtà e tutti gli infiorettamenti del caso.
– Ah. Poveraccio. – Matteo liquidava la cosa in fretta, già distratto da un’altra notizia al telegiornale o da un angolo un po’ negletto.
– Certo che questa camera avrebbe proprio bisogno di una bella spolverata… – Discussione chiusa.
Poi c’erano le separazioni, i divorzi. Famiglie sfasciate che si rotolavano nell’odio, persone un tempo normali e magari anche piacevoli che voluttuosamente si massacravano di rancore usando i figli come pegno.
– C’era questo ragazzino, non piccolissimo, una dozzina d’anni, ma era completamente spaesato, il padre che urlava che aveva diritto di vederlo e la madre che guardava il figlio con occhi velati di lacrime e piagnucolava che solo lei sapeva quale era veramente il suo bene e che ogni ora passata lontano da lui per lei era un tormento, che ogni minuto si chiedeva se lui stava bene e se aveva tutto quello che gli serviva.
– Mmh. Eh, sono proprio situazioni tristi. Senti, non hai mica avuto tempo oggi di fare quella telefonata? Lo sai che era molto importante, è vero che il lavoro non ti lascia respiro, ma ho pensato che magari cinque minuti potevi averli trovati…

29. The Secret Agent

http://www.tantifilm.net/guarda/lagente-segreto-the-secret-agent-1996-streaming/

Tratto da un romanzo di Conrad, questo film di Christopher Hampton è in generale sconsigliatissimo dalla critica. Beh, devo dire, quasi anche da me. Quasi, perché di sconsigliarlo proprio del tutto  non me la sento. E’ un film dalle atmosfere estremamente cupe, è ambientato nella Londra di fine ‘800 (anzi, come diceva Ebert, quasi tutto in un angolo particolare di Londra) e sembra che qualunque film che si svolge in quella città e in quell’epoca debba per forza avere un’atmosfera cupa. Ok, questo è un film di spionaggio, più o meno, quindi ci sta.

Io non me ne intendo di spionaggio, devo dire. Però ai miei occhi di profana mi pare che questo sia piuttosto un tragico girotondo tra una finta rivendita di giornali porno che copre una finta collaborazione con gli zaristi russi, che copre una finta collaborazione con gli anarchici, che copre una (altrettanto finta, mi parrebbe) collaborazione con un ispettore capo della polizia britannica. Chi gira in tondo è il signor Verloc (mai chiamato per nome da nessuno), uno sconclusionatissimo agente che sembra una caricatura (ma non dovrebbe esserlo). Una brava persona, poveraccio, non fosse che si trova a essere un tipo un po’ insulso catapultato in giochi decisamente più grandi di lui e abbastanza portato, comunque, a usare il prossimo quando gli serve per cercare di salvare la pelle e i suoi interessi. E’ interpretato, peraltro benissimo, da Bob Hoskins. Il cast, del resto, è la cosa migliore (l’unica cosa buona?) del film. C’è Gerard Dépardieu (l’anarchico Ossipon), con una sessantina di chili e di anni in meno, che non guasta per niente. C’è Patricia Arquette (che io però non amo e che ha una voce, non so se in questo film in particolare o se è proprio la sua, così da bambina da non credersi), che fa Winnie, moglie del povero Verloc. C’è Christian Bale che fa Stevie, il fratello di Winnie, ragazzo buono di cuore ma con un evidente ritardo mentale (secondo me lui è davvero bravissimo). E poi c’è il Professore. Un Robin Williams quasi irriconoscibile e all’epoca inedito (tenete conto che non erano ancora usciti né One Hour Photo, né Insomnia), neanche citato tra gli interpreti (sul motivo non ho ancora notizie certe). Il personaggio forse più simile a questo (benché comunque diverso) che ho trovato finora è lo psichiatra in disarmo di Dead Again. Simile nel senso di quasi altrettanto inquietante. Perché in questo film Robin Williams riesce ad essere davvero, davvero inquietante. Un  venditore di esplosivi con tendenze “naziste” (l’epoca è precedente ma il quadro caratteriale è quello), votato alla distruzione e all’autodistruzione, senza nessuno scrupolo, nessun interesse per le conseguenze delle sue azioni, nessuna pietà per i deboli e che contrappone alla forza soggetta ai vincoli della morale, dipendente dalla vita e quindi soggetta a inibizioni, vulnerabile, una forza che non ha limiti, quella della morte. Riuscite a immaginarlo? Beh, io posso ormai immaginarlo fare qualunque cosa. Il fatto è che è bravo. Così bravo che adesso io per riprendermi avrei bisogno di guardarmi un altro film 🙂

Quote

The Professor: Pull yourself together. Remorse is for the weak and weakness is the source of all evil on this Earth. There’s a time coming – and it’s gonna be sooner rather than later – when this will be understood by governments and individuals: that there can be no progress and no solutions until you make a rational decision to exterminate the weak

LA LETTRICE DELLA DOMENICA 8 – I Viaggi di Gulliver

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Se avete (abbiamo) mai avuto qualche resistenza ad avvicinarci ai classici con l’idea che potessero facilmente rivelarsi dei mattoni, questo è il libro giusto per smentirla in pieno. Premessa: io ho una certa predilezione per la letteratura inglese dal settecento a oggi. Amo la lingua, lo humour, il modo di descrivere le situazioni e i personaggi. Con qualche notevolissima eccezione di cui non parlerò qui, ma del resto già alla parola humour penso potrete avere escluso da soli un paio di scrittori tutt’altro che di secondo piano. Ma, seconda premessa, ho un debole proprio per Swift in particolare. No, in realtà non so quanto sia giusto dire così perché poi ripensandoci, dicevo tra me e me, sì, però anche questo… e veramente anche quest’altro… e poi ci sarebbe… Ma restiamo a Swift, per oggi. E diciamo solo che è uno di quelli che considero con un affetto un po’ speciale. Dei cenni biografici che ne dà Wikipedia, per dire, a me basterebbero le prime due parole. “Spirito libero”. E poi altre quattro: “di posizioni eterodosse.” “Anticonformista.” Sta tutto qui, per me. Sicuramente la sua satira è caratterizzata dall’ira e dal risentimento che è del resto lui stesso a menzionare nientemeno che nel suo epitaffio. Ma i suoi tratti di misantropia, pur presenti soprattutto nell’ultima parte della sua vita, sono in parte in contraddizione con la battaglia costante che ha sempre condotto, fino all’ultimo, contro le ingiustizie, l’ipocrisia e l’indifferenza alle sorti dei più deboli. Così come il fatto che abbia contribuito alla diffusione della letteratura attraverso i giornali per consentirne la diffusione anche tra le famiglie più povere che non potevano permettersi i libri. Io leggo nella sua satira un profondo dolore, derivante proprio da vedere tante miserie morali e materiali intorno a sé, e il fatto stesso di scriverne mi pare, nonostante tutto, prova che una speranza di riscatto dovesse comunque conservarla. Gulliver’s Travels è un capolavoro di ironia e di relativismo, un grido di indignazione morale contro la guerra, le ingiustizie e il falso senso di superiorità di certe “civiltà” di modernità sconcertante, ed è certo una satira crudele che parla dei difetti di una società del primo settecento. O dei nostri. Ma è anche divertentissimo. Perché questa è una caratteristica che accomuna gli autori che io amo di più, per quanto diversi tra loro: sono talvolta velenosi, spesso politicamente scorretti, sempre arrabbiatissimi contro un sacco di cose che non gli vanno bene per niente, magari un po’ cinici. Ma le loro critiche, anche quando sono feroci come quelle di Swift, le fanno facendo ridere, perché (e lo sanno bene i dittatori e in generale i sostenitori del pensiero unico), è ridendo che si esprimono meglio la verità e la libertà di pensiero.

Solitamente, dei vari viaggi del dottor Lemuel Gulliver (che terminano tutti con un naufragio su un’isola) si ricordano soprattutto quello a Lilliput, dove gli abitanti sono di statura minuscola rispetto a lui, e a Brobdingnag dove invece il protagonista si ritrova piccolissimo rispetto a dei giganti. In realtà sono altrettanto significative la tappe a Laputa, dove gli abitanti sono scienziati e dei filosofi che si occupano però di esperimenti del tutto inutili e vivono fuori da ogni contatto con la realtà, e quella sull’isola degli Houyhnhnms, che sono di fatto dei cavalli, ma molto pià saggi, equi e razionali degli umani (chiamati Yahoo e tenuti in condizione di inferiorità a causa dei loro vizi).

Citerò solo un piccolo brano, dalla scena dell’ispezione a cui viene sottoposto Gulliver presso i Lillipuziani. L’ispezione viene diligentemente verbalizzata dai funzionari dell’imperatore e il rapporto è tutto in realtà una caricatura degli atti burocratici, un gioiellino. Ma mi sofferemerò su questo oggetto in particolare:

Out of the right fob hung a great silver chain, with a wonderful kind of engine at the bottom. we directed him to draw out whatever was fastened to that chain; which appeared to be a globe, half silver, and half of some transparent metal: for on the transparent side we saw certain strange figures circularly drawn, and thought we could touch them, till we found our finger stopped by that lucid substance. He put this engine to our ears, which made an incessant noise like that of a water-mill and we conjecture it is either some unknown animal, or the god that he worships; but we are more inclined to the latter opinion, because he assures us (if we understood him right, for he expressed himself very imperfectly), that he seldom did any thing without consulting it: he called it his oracle, and said it pointed out the time for every action of his life.

[Jonathan Swift, Gulliver’s Travels, Penguin Popular Classics]

Dal taschino destro pendeva una pesante catena d’argento con appesa una macchina straordinaria. Gli facemmo cenno di estrarre quel che stava attaccato al capo della catena: si trattava di un globo per metà d’argento e per metà di un metallo trasparente attraverso il quale si potevano vedere strane figure disposte in cerchio. Pensavamo di poterle toccare, ma le nostre dita non andarono oltre quella materia traslucida. Ci mise agli orecchi quella macchina che faceva un rumore incessante, come quello di un mulino. Pensiamo che si tratti di qualche bestia sconosciuta o del dio che lui adora, siamo anzi favorevoli a questa seconda ipotesi, perché ci assicurò (se abbiamo capito bene quel che ci disse, dal momento che si esprimeva in maniera assai scorretta) che raramente intraprendeva qualche azione senza prima averlo consultato. L’ha definito il suo oracolo, dicendo che gli indicava il momento giusto per ogni azione. 

[I viaggi di Gulliver, Garzanti, traduzione di Attilio Brilli]