
Genova l’ha costruita il vento. Ha scavato la roccia e la sabbia e il cemento, si è insinuato tra le case per strappare un passaggio, ritagliarsi un cunicolo, prendersi, se non altro, lo spazio angusto di un soffio. Lo scirocco che arriva caldo, umido e salmastro in estate, la tramontana che in ogni stagione ripulisce aria e cielo, il libeccio, temibile scatenatore di mareggiate, e il ribelle mistral della Provenza, che qui diventa maestrale, solleva nubi cumuliformi e soffia dentro la voglia di fuga. Ciascuno di loro ha contribuito a dare alla città la sua forma, il ritmo del suo passo, il suo odore.
Non di rado, a Genova, il vento soffia freddo e cattivo e viscido e uccide anche le nuvole, e crea quell’uniforme, sterminato azzurro, immacolato, scintillante e gelido, in quelle giornate d’inverno in cui si sa che “sulle alture” probabilmente nevica. Altre volte, quando piove, ti sbatte l’acqua addosso, te la fa scivolare sotto sciarpe e cappotti, la intrufola tra le pieghe di gonne e pantaloni, fino a che l’umido ti penetra nelle ossa, e anche quando entri in un luogo caldo, continui a sentirti gelato.
In settembre, però, di solito non c’è che un’allusione di vento, una brezza senza cattiveria, un filo sottile attenuato dagli Appennini, ma già proveniente del nordest, dai paesi del ghiaccio. Settembre è cielo in trasferimento, passaggi di colore, e quell’aria gentile che ridipinge i banchi del Mercato Orientale: funghi e caldarroste e uva, il bruno scuro, il violaceo e il verde pallido, così nitidamente autunnali, proprio affianco all’arancio degli agrumi in allegro contrasto con i tralci di foglie color smeraldo rimasti attaccati al picciolo, al rosso vivo dei kaki, al carminio antico e all’oro pallido delle mele.
Il giorno in cui Andrea tornò a casa pioveva, ma Genova gli parve bellissima. Non si era mai accorto di quanto gli fosse mancata. Era stato bene a Londra, riconosceva che sotto molti aspetti le cose erano più facili. Aveva anche ottenuto grandi soddisfazioni professionali, e aveva tanto apprezzato l’infinità di cose che c’erano da fare, la sua gente multicolore proveniente da ogni parte del mondo, da affezionarsi alla nebbia, e da sopportare perfino la sua famigerata cucina, quando non aveva voglia di rovinarsi finanziariamente per assaggiare qualche scarno spaghetto in un ristorante italiano. Ma quanto era straordinario questo posto che si rintanava nella valle fino a lambire il mare, e poi si aggrappava alle colline, arrampicandosi sempre più su. Genova affondata nella sua conca, il punto di arrivo da tutte le sue valli, la maledizione degli automobilisti. Genova con le sue salite e discese da rimanere senza fiato, odiata, amatissima Genova.
Quei primi giorni Andrea li trascorse a bighellonare senza meta, cercando a memoria i suoi antichi punti di riferimento per non perdersi nei carruggi, scendendo per strade ogni volta diverse dalla bellezza medioevale di Porta Soprana e dalle rovine della casa di Colombo, o dallo splendore un po’ offuscato della rinascimentale Piazza De Ferrari, giù fino alla Ripa Maris, la murata degli antichi palazzi nobiliari sulla riva del mare. La sopraelevata lo colpì i nuovo con la sua bruttezza, come la prima volta che l’aveva vista, ancora ragazzino, alla sua inaugurazione nel ’65. Rumorosa, orrenda, e per giunta aveva diviso la città dal suo porto e dal suo mare, ma sembrava lo scotto inevitabile da pagare per il privilegio di vivere in una città che dagli Appennini si estendeva fino alla costa.
E appena ci si allontanava di pochi passi dal centro più in vista, dal “salotto” di Palazzo Ducale e del Duomo, si ritrovava l’altra Genova, quella dei carruggi, appunto, Genova riservata e nascosta, che come una di quelle bellissime piazze si apriva all’improvviso, rivelando una bellezza mai immaginata, sotto un sole inaspettatamente luminoso tra quei vicoli stretti.
C’è un’affascinante, strana convivenza, forse un po’ perversa, tra i grandiosi palazzi aristocratici che racchiudono tesori e i ghetti dei “tossici” e dei perdenti della terra, il contrasto tra le scalinate di marmo e le siringhe gettate forse per spregio, l‘incanto quasi doloroso di certe piazze e il degrado dei minuscoli “budelli” confinanti, testardamente cercato e difeso quasi con orgoglio, come a negare ogni bellezza della città, del mondo, della vita.
Ma Andrea si sentiva nato in quelle strade, erano casa sua, e non si stancava mai di scoprire un nuovo, bellissimo portone di ardesia o di marmo, una di quelle “edicole”, le commoventi e a volte stupende madonnine incastonate in una nicchia sulla facciata di una casa, gli scorci di San Matteo e San Cosimo viste da prospettive diverse, un angolo di mare che spuntava imprevisto alla fine di un vicolo. Altre volte invece ripassava per la commerciale, ottocentesca Via Roma, rivedeva lo splendore orgoglioso della Superba nei palazzi e nei musei di Via Garibaldi, l’antica Via Nuova. Ricordava bene quando Filippo li stupiva facendo da allegro Cicerone, mentre loro lo ascoltavano a bocca aperta raccontare le storie dei Fregoso – il nome è già tutto un programma, aveva buttato lì Marco a commento delle loro imprese non sempre eroiche – degli Embriaco, dei Doria, degli Spinola, dei Grimaldi, dei Brignole-Sale, di quando Genova era la più ricca, la più superba città d’Europa. Una repubblica in cui non c’era un solo principe, ma tanti banchieri, tutti impegnati a sfidarsi con la magnificenza dei loro palazzi. Fino a che si erano inventati un intero quartiere. La Via Nuova aveva fatto diventare Genova la “Città dei Palazzi”, un’ardita innovazione architettonica che ancora non esisteva da nessun’altra parte, e che Rubens aveva esportato nel nord Europa in una azzardata operazione di marketing ante litteram.
La pietra rosa di Finale, il bianco dei marmi, il grigio dell’ardesia, e poi ori, affreschi, statue, portali. E tutto questo alle porte della Maddalena, che già allora era il luogo dei “postriboli”, ovvero dei portuali e delle puttane, malfamato, degradato, vicinissimo eppure invisibile. Ma a guardar bene, se la Via Nuova aveva dalla sua l’imponenza stranamente aggraziata delle sue straordinarie strutture, ma con una certa freddezza quasi da luogo disabitato, da monumento storico, la Maddalena al contrario aveva il fascino degli odori, dei sapori, dei negozi che vendevano le cose più insolite, dei curiosi oggetti artigianali, delle spezie, in altre parole il fascino di un angolo della città vivo, vitale e popolatissimo.
E poi, ben lontana dal centro, c’era Boccadasse, colorata, allegra Boccadasse dal profumo di mare, perduta in un mondo tutto suo, con le piccole case da pescatori, un tempo disdegnate e adesso oggetto del desiderio di tutti. Un borgo marinaro in mezzo alla città. Il suo rifugio, dove ascoltava il placido mare della piccola baia mangiando l’insuperabile gelato di Amedeo, seduto sul muricciolo a guardare le barche. Gli sembrava che Genova stesse finalmente ritrovando se stessa. Come lui.
Aveva trovato a Boccadasse un appartamento piccolo ma confortevole vicino al mare, e se l’era praticamente creato su misura, con mobili dalle linee così semplici da essere quasi austeri, e tutto un mondo di oggetti coloratissimi, ognuno speciale, ognuno proveniente da un viaggio diverso, di quando era un ragazzino e col suo zaino in spalla se ne andava in giro. Era stato nei paesi della provincia italiana, in Francia seguendo un suo personalissimo “sentiero eno-gastronomico”, e poi a Cuba, per seguire il percorso dei viaggi del “Che”, e in Messico sulla rotta dei Maya, in America, a New York dove viveva sua sorella, e poi sulle Montagne Rocciose, e in Canada… Aveva foto del deserto delle Tabernas, dove le dune, le case bianche e quadrate e le palme facevano pensare alla Tunisia, e invece era in Spagna. Foto delle cascate ricche d’acqua e delle più fertili terre africane; foto dei frutteti che crescevano inattesi nel fiordo norvegese di Hardanger. Tutti i suoi scatti sembravano voler consapevolmente smentire qualunque aspettativa, qualunque luogo comune, per quanto magari fondato su solide basi di realtà, quasi a dimostrare che per ogni regola c’era sempre in agguato un’eccezione, a saperla cogliere. Era stato in mille posti, si era innamorato mille volte, ogni volta di un particolare diverso, ogni volta c’era qualche ragione speciale che lo avrebbe spinto a restare. Però alla fine tornava sempre.