Di poesie, risate e stelle

Oggi pesano i passi e pesano le parole. Faccio fatica a mettere un piede avanti all’altro, anche solo ad alzarmi dalla sedia, e faccio fatica a mettere un pensiero avanti all’altro, anche solo a dargli un senso. Che se li mettessi tutti in fila, i pensieri, e anche i passi che ho fatto nella mia vita, non avrei bisogno di guardare il cielo da lontano, per cercare la stella in cui abiti e sentirla ridere, perché tutti quei pensieri e quei passi mi ci porterebbero, fin lassù, direttamente lì sopra.

Ho bisogno di tutta questa forza adesso, per riordinare, tagliare e incollare, girare frasi, migliorare, abbreviare, anche, la cosa più difficile. Come si fa sempre quando si scrive. Per fare in modo, senza perdere nulla di quello che si vuole dire, che anche gli altri possano entrarci, che sentano le tue emozioni come le loro, che avvertano esattamente lo stato d’animo in cui eri quando hai scritto.

Sembra strano, ma è un lavoro di cesello, questo. E non mi basta, a volte, sentire la tua musica dentro, non mi basta la forza. Scrivere è la mia forza, quante volte l’ho detto, la mia energia vitale viene in buona parte da lì. Ma quello che dà se lo riprende anche indietro. Riempie e svuota di continuo sempre la stessa botte, appaga e sfianca, placa e rimescola fino a non poterne più. E io a volte non so se ce la faccio.

Le stelle poi non sempre ridono. A volte bisogna lasciare anche che piangano. Bisogna provarci, a prenderle in mano. Forse, se ci si prova, ci si arriva. Non ne sono sicura, ma bisogna provarci. Tenere le mani a coppa, accarezzarle come gattini fino a che smettono. Poi brilleranno di più, torneranno anche a ridere, forse. Spero. Del resto sappiamo così poco di noi, figuriamoci delle stelle. Ma se la natura ci ha dato la capacità di scrivere, di fare poesia, di usare il nostro corpo e i nostri sentimenti per farne arte, a qualcosa deve pur servire. Anche se il prezzo sembra alto. Ma forse costerebbe ancora di più non farlo.

UN LEONE A COLAZIONE 15. Autonomia e regole

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Mi veniva da mettere una bella risata a mo’ di introduzione a questo post: regole? hahahahaha!

Non è un mistero che l’autonomia passi sempre per la messa in discussione delle regole e che questo sia uno degli aspetti che rendono l’adolescenza una fase della vita tanto affascinante e appassionante, per chi la vive e per chi ne è affetto solo indirettamente.

Non è che abbiamo finito di parlare di scuola! E’ un campo bello vasto! Ma del resto è uno dei terreni in cui si misura la capacità dei ragazzi di adeguarsi alle regole, di discuterle, di appropriarsi di alcune e rifiutarne altre, di “incorporare” quelle accettate fino a farle diventare parte di sé.

L’altro campo, naturalmente, è la famiglia… Mettere a posto quello che si è tirato fuori, rifarsi il letto, aiutare in casa, assumersi piccoli compiti… io non so quanto davvero tutto questo sia collegato all’autonomia e al superamento della paura, ma so che in qualche modo lo è. I “no” che diciamo aiutano anche i ragazzi, in un certo senso, a imparare a dire i loro “no”. Perché dire di no nella vita è importante tanto quanto dire di sì. E capire quali regole vanno rispettate sempre e su quali si può essere più flessibili (e a quali ci si deve opporre sempre e comunque) è parte della crescita e della costruzione delle proprie ali.

Ma all’atto pratico…

Non è solo una questione di difficoltà, comune a tutti i genitori, di trovare l’equilibrio, da ripensare quotidianamente del resto, tra autorevolezza e indulgenza, tra comprendere e giustificare, tra ostilità verso la disciplina (io odio la disciplina!) e l’esigenza di trovare però un minimo di regole condivise senza le quali diventa difficile la convivenza. La paura del conflitto, la responsabilità che si avverte si amplificano. Cosa significa prendersi cura? Fino a che punto è giusto occuparsi di un ragazzo fino a sostituirsi a lui, e per quanto tempo?

Sembrano, e sono, niente più che i dubbi di qualunque genitore, credo. Però c’è alla base una difficoltà dei figli adottivi a gestire le frustrazioni, anche le più piccole, che può facilmente sfociare, per questioni apparentemente minuscole, in quella che è stata definita una rabbia cosmica. E in certi momenti quella rabbia cosmica è contagiosa, posso dirlo per esperienza, e bisogna fare un passo indietro in tempo perché il rischio di infilarsi in un vortice senza uscita non è così remoto. E’ così facile per loro sentirsi accusati, criticati (tu pensi che io sia stupido!)… E d’altra parte il bisogno di mettersi alla prova passa anche attraverso l’aiuto dato in famiglia, o il riordinare la camera.

E’ che poi… l’adolescenza è un’età di domande sui massimi sistemi, sull’esistenza, sull’origine nostra e dell’universo. Almeno, per noi lo è: ma le stelle, quando cadono, poi, dove vanno a finire? Ma quando i dinosauri si sono estinti, tu c’eri? (beh, questa domanda era venuta un po’ prima dell’adolescenza, ma per dire…); ma l’universo… ok, il big bang, ma perché tutto è esploso? Che cosa è esploso esattamente? Chi lo ha deciso? Ma io da dove vengo? Chi ha deciso che dovevo essere qui? Insomma, ne avete un’idea.

Tra queste domande spesso ce n’è una che sovrasta tutte le altre: fino a che punto devo fare quello che dici tu? E perché? 

E qui una frase chiave che ci era stata detta è che i ragazzi “devono passare dal devo al voglio“. Per cui punire (che del resto è una cosa che io sono quasi costituzionalmente incapace a fare, anche se almeno ai primi tempi ho dovuto imparare, in certi casi) è poco utile. Più utile è mettere in evidenza le cose fatte bene ogni volta che si può, non dimenticarsene mai, e partire dalle cose positive anche quando si rimprovera.

Nel nostro caso, più utile di tutto è stata la leggerezza: rispostaccia? Smorzare con una battuta. Esorcizzare la rabbia con smorfie fatte insieme, a specchio. Quando si è tranquilli, certo, non nel mezzo di una lite familiare. Non sentirsi mai, o il meno possibile, messi in discussione, perché quello è il primo passo per perdere autorevolezza. in realtà, quella che i figli mettono (costantemente) in discussione è la solidità della nostra fiducia in loro. Rispetto delle regole compreso.

E anche quando ci aggrediscono (sono capaci di ferire in profondità, ve lo assicuro), ripetersi sempre, tipo mantra non lo sta dicendo a me, non è conntro di me questa furia. Perché è la verità. Infrangeranno le regole perché è, tra l’altro (ma non solo) un modo di provocare, sondare la solidità dell’affetto e del legame. Ma di fatto, la paura che c’è dentro questo comportamento, e subito dietro la rabbia, che spesso viene fuori quando vengono sgridati, sono frutto di una fiducia tradita che va ricostruita con molta pazienza. La pazienza verrà premiata. Perché quando non sono sulle difensive, i ragazzi sanno benissimo che le regole e le sgridate sono parte dell’amore (più volte mi hanno riferito, con tono sgomento, di compagni che potevano fare e dire quello che volevano “e il padre non li sgrida mai! Non gli dice mai niente!”).

Per finire, un piccolo recente dialogo buffo sul tema dell’autonomia, per chiudere di nuovo su un tono più leggero…:

mamma: domani devo andare via per lavoro e devo partire prima di pranzo, non avete problemi a  farvi da mangiare da soli, no?

bertuccia piccola: mamma, non ho cinque anni, un piatto di pasta me lo so fare. E comunque, col mio naso da roditore, qualcosa da rosicchiare lo trovo, stai tranquilla…

😀

Come una radice

Immagino il rumore tintinnante delle stelle
contro il ventre scuro del cielo
in questa stagione di fulmini e farfalle:
nuvole come la schiumante furia dei marosi
il bianco e il nero, il peso della pioggia
e la leggerezza della luce, il caos del cielo
in cui rivivo il mio disordine, cambio
un angolo, una curva, un colore
mi spezzo la schiena con quello
che non vorrei sapere, sbriciolo tra le dita
il pane dei miei desideri muti, le carezze
che ti avrei dato rivestono la mia pelle indifesa.
E’ facile, oggi, dire che saprei, che avrei potuto
cosa non avrei fatto, quali abbracci
avrei conservato per non spezzare il filo
non lasciare che la pena ti contasse i passi
e non trovarmi questo metallo incandescente
che riempie con il fuoco certe voragini in un soffio
come di vento che muta in acqua le parole
urlo d’ingiustizia sull’orlo del dirupo
in questo intrico di lacrime d’erba
fiori di ghiaccio e il muto travaglio della notte
l’incresparsi del dolore in piccole onde infinite.
Ma se fosse stata questa, la grazia,
di poter scegliere prima che sia tardi,
racchiudere tutta l’allegria e la musica
in una valigia e poi partire senza più voltarti?
Se davvero fosse stato questo, il senso,
conoscere tutte le pieghe della strada
e poterti guardare l’anima fino al fondo
e ricoprirla col mare perché il sale
asciugasse le ferite e ti lasciasse
la dolcezza di non esserti tradito?
Mi cresci dentro come una radice forte
vicino come se mi risuonasse dentro
l’eco della tua voce, come se potessi
ripararmi con la tua corteccia, e mi pare
a volte di sentire il richiamo del volo
per poter poi fermarmi ad invecchiare, essere
tra i tuoi rami, nella bellezza senza scampo
di ali incerte, su un percorso ignoto, la terra
in cui t’immergi in questa primavera fuori tempo
ma tu riposa, adesso, che ho seminato
all’ora giusta, e il tuo giardino, in questo freddo
sta crescendo, sai, e presto sarà fiorito
nonostante tutto.

IL BOSCO – PARTE IV – Capitolo III – I

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I

C’era quasi riuscito.
Per qualche tempo Matteo si era detto che forse Stéphanie era stata davvero solo una parentesi, che si era preso la tipica sbandata da uomo di mezza età (dopotutto aveva superato i quarant’anni, si ripeteva spesso) con la complicità di un momento di solitudine.
Aveva ritrovato con Elisa un rapporto di amicizia molto forte, come ai tempi in cui erano ragazzini e non avevano ancora rovinato tutto con le complicazioni sentimentali. E in più erano entrambi più maturi. Lei si era addolcita molto negli ultimi tempi, e lui stesso si sentiva molto meno pignolo, molto meno rigido.
Quanto a Roby e Luca, c’erano stati momenti, durante il suo soggiorno a Marsiglia, che aveva pensato che non fosse poi così difficile fare il padre a distanza, che avrebbe potuto mantenere un buon rapporto con loro, non poi tanto diverso da quello che aveva sempre avuto, quell’affetto un po’ distante, la preoccupazione di assicurargli un futuro tranquillo, ma senza grandi capacità di coccolarli e guardarli crescere.
Da quando era tornato, le cose erano cambiate. Era come se avesse all’improvviso capito che aveva paura di perderli, e allontanarsi da loro non gli sembrava affatto così semplice, dopotutto.
Però…
Però aveva continuato a pensare a Stéphanie. All’inizio soltanto casualmente, magari perché alla radio davano una rara canzone francese, o perché si trovava sul lavoro a parlare dell’affare con la ditta di Marsiglia.
Poi aveva cominciato a pensarci ogni volta che vedeva una donna che aveva il suo colore di capelli, o usava il suo profumo, o aveva una voce simile.
Ad un certo punto, senza accorgersene, era scivolato gradualmente nel pensare a lei praticamente ogni momento della giornata. In altre parole, invece che dimenticarla, man mano che passava il tempo gli mancava di più.
Si può giudicare un uomo per le incertezze nei sentimenti? Quando ama è il momento peggiore per conoscerlo, o il migliore, quando tutti i pezzi di cui uno è fatto sono scompigliati e in disordine e poiché nessuno è sempre uguale a se stesso, si finisce sempre per scoprire una parte di lealtà dietro l’inganno, una parte di coraggio dietro la viltà. E viceversa.

Elisa preparava la cena, pasta al pesto con le patate e i fagiolini, uno di quei piatti liguri semplici e saporiti che erano la sua passione. Il profumo fresco del basilico e quello un po’ forte e aspro dell’aglio si mescolavano con il sentore più dolce dei fagiolini, in cui Elisa metteva anche, qualche volta, poco origano, “appena un’idea” come diceva lei. Le piaceva cantare quando cucinava, e anche adesso stava cantando, una canzone che lui non conosceva. Roby attaccò d’improvviso a cantare insieme a lei. Matteo pensò che lei era bellissima, e che l’aveva perduta, chissà quanto tempo prima. Aveva perduto, con lei, anche quell’amore così innocente, così perfetto, e non sapeva come e quando era accaduto. L’aveva amata tanto, perdutamente, completamente, eppure con quella costante, invincibile paura che tutto potesse un giorno finire, che lei potesse smettere di amarlo, o che quello che entrambi sentivano potesse avere un termine, una scadenza. L’aveva amata volendo fortemente amarla per tutta la vita, e le aveva dato tutto quello che aveva da dare, ma non era mai riuscito dividere la felicità di averla accanto dal dolore anticipato, o forse presagito, perché, adesso se ne rendeva conto, si era sempre comportato, in fondo, come se sapesse che non sarebbe durata. Non aveva mai, neppure per un istante, smesso di interrogarsi su quello che sarebbe accaduto, e avere il pensiero sempre rivolto a qualche oscuro timore per il futuro aveva annacquato il suo amore e la sua vita presente.
E adesso, con Stéphanie, sarebbe riuscito a non avere paura? Sarebbe riuscito a godersi pienamente ogni istante con lei, non pensando a tutti i modi in cui avrebbe potuto perderla, ma a quello che poteva fare per riconquistarla ogni giorno, pago solo della bellezza di ogni singolo istante della sua presenza?

34. Flubber

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Filmetto spensierato e leggero, questo. Secondo dei quattro fatti da Robin Williams nel 1997 (beh, se consideriamo che il primo era Good Will Hunting, si può capire forse come mai critica e pubblico ci siano andati giù un po’ pesanti). Può certo far da balsamo per una giornata un po’ così-così. A me oggi ha fatto bene e quando un film riesce a migliorarmi l’umore, il numero delle stelline ideali che gli attribuisco aumenta almeno quanto aumenta quando mi commuovo.
Film, tuttavia, stroncato dalla critica, con rare eccezioni. Persino Roger Ebert, che sembra in genere aver avuto un debole per qualunque pellicola in cui recitasse Robin Williams, classificò Flubber tra i peggiori film del 1997. Vi dirò: è una cavolatina, non posso sostenere il contrario, ma tra le tante cavolatine che escono, io lo trovo delizioso. Buffo, dolce, stralunato come il suo protagonista. In fondo è un film per famiglie e in questo campo ci sono incantevoli meraviglie ma anche innominabili orrori. Questo secondo me si piazza verso una dignitosissima via di mezzo. Trovo adorabili molte cose. Il protagonista in primo luogo… Maddài, dirà qualcuno. Ma chi ha avuto la pazienza di seguirmi lungo il percorso che ha preceduto questa trentaquattresima recensione, forse ricorderà che l’impensabile è accaduto. Ci sono stati personaggi interpretati da Robin Williams che nemmeno io sono riuscita ad amare (il che non significa che il film in sé non valesse la pena). Anche il flubber, comunque, è adorabile. Che ci volete fare, ho una parte bambina alla quale tengo moltissimo, ci sono scene in cui rido come una matta. E quando penso a come Robin usava la faccia, il corpo, l’energia, a quanto tutto fosse strumento malleabile più del flubber nelle sue mani, ecco, in questo film lo si vede, lo si vede moltissimo. E già solo per questo lo amerei.
Si tratta di un remake di un film del 1961, intitolato The Absent-Minded Professor (Un professore tra le nuvole), con Fred MacMurray, che io però non ho visto.

Steven Spielberg aveva pensato di produrlo, poi non se ne fece nulla perché per lui era imprescindibile la presenza, nel ruolo del protagonista, di Robin Williams, il quale all’epoca era in rotta con la Disney (a causa di un loro inadempimento del contratto relativo al film Aladdin). Non appena Robin si riconciliò con la casa cinematografica, comunque, venne immediatamente scritturato.

Phillip Brainard è un fisico, mente geniale ma ovviamente con la testa tra le nuvole come qualunque professore (e specialmente scienziato) che si rispetti. Talmente tra le nuvole, in effetti, che non solo è capace di sbagliare aula e non accorgersene neanche quando finisce tra i modelli (nudi) di una lezione di disegno dal vero, ma non riesce a ricordarsi neanche del suo matrimonio. Anche se in quest’ultimo caso c’è anche lo zampino di Weebo, una sorta di computerina infernale ossessionata da lui. In versione buffa, ovviamente. Le macchine nel film a me piacciono tutte tanto tanto. Naturalmente c’è anche un villain nel film, un antipaticissimo collega rivale di Phillip che dopo avergli rubato varie idee per sfruttarle economicamente, intende adesso rubargli anche la fidanzata. E quando Phillip crea un nuovo materiale, duttile, pieghevole, flessibile, addomesticabile, nonché, come si diceva, adorabile (il flubber, appunto), tutto potrebbe risolversi, ma prima deve complicarsi…

LA LETTRICE DELLA DOMENICA 13 – D’amore e ombra e Il piano infinito

Oggi i miei auguri di Pasqua li faccio con questo piccolo post su due romanzi di Isabel Allende, che all’epoca avevo molto apprezzato. Formato ridotto, ma mi perdonerete, ché io celebro a modo mio. Ho riflettuto ancora sui desideri e le strade, ascoltato Bach, fatto una minuscola particina delle pulizie di primavera e soprattutto, ho prenotato il viaggio dei miei sogni. Anche attraverso queste cose passa la ri-nascita 🙂

D’Amore e Ombra             Ricordo che mi era piaciuto molto quando l’avevo letto, ma è passato diverso tempo. Fa parte di quei libri che vorrei prima o poi rileggere, ma ce ne sono tanti nuovi da scoprire… Comunque lo tengo lì. In attesa. Non si sa mai…

Incipit: “Il primo giorno di sole fece evaporare l’umidità accumulata sulla terra dai mesi invernali e riscaldò le fragili ossa degli anziani, cui fu possibile passeggiare lungo i sentieri ortopedici dei giardini. Solo il melanconico se ne rimase a letto, perché era inutile portarlo all’aria aperta se i suoi occhi vedevano solo i propri incubi e le sue orecchie erano sorde al richiamo degli uccelli…

Il Piano Infinito    Anche questo non ricordo neanche più quando l’ho letto, ma so che Isabel Allende mi piace. Forse lo rileggerò, un giorno.

Incipit: “Andavano per le vie dell’ovest senza fretta e senza meta precisa, mutando rotta secondo il capriccio di un istante, al segnale premonitore di uno stormo d’uccelli, alla tentazione di un nome ignoto. I Reeves interrompevano il loro erratico peregrinare ove li cogliesse la stanchezza o incontrassero qualcuno disposto ad acquistare la loro impalpabile mercanzia. Vendevano speranza. Così percorsero il deserto nell’una e nell’altra direzione, valicarono le montagne e una mattina videro apparire il giorno su una spiaggia del Pacifico…

SABATOBLOGGER 13 – I blog che seguo

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Anche per oggi sono riuscita a inserire dieci blog. Sabato pre-pasquale… Auguri e buon viaggio tra le parole come sempre

La sottile linea d’ombra è un blog in cui l’arte ha un ruolo sicuramente molto rilevante, così come l’architettura (del resto, l’autrice è architetto). Se volete avere una prima idea dei temi trattati, trovate qui una descrizione (della linea d’ombra in sé e del suo significato personale per l’autrice del blog) che a me è piaciuta molto. Poi siccome io amo gli Impressionisti, ricordavo bene questo post che del resto è molto adatto a questo momento, di transizione tra la leggera nostalgia dell’inverno appena finito, quello della neve più bella e poetica (e artistica, appunto), e l’aspettativa per una primavera che è già iniziata ma che qua e là potrebbe ancora riservarci qualche brivido. Ho trovato invece qui dei begli spunti, alcuni li ho già seguiti per conto mio ma altri ho deciso di “rubarli”, per scoprire sempre nuovi aspetti della propria città, che effettivamente spesso sfuggono quando giorno per giorno la si percorre e si finisce per guardarla senza vederla più.

The Eternal Sunshine of an Endless Mind (Angie Simonon) questo post sulle cose imparate un giorno perché amo le parole, sì anche quelle  straniere, amo in particolare le parole straniere che sono uniche di un luogo, che non hanno corrispondente in altre lingue, che rispecchiano un’emozione che appartiene a tutti e per cui tuttavia qualcuno ha inventato un unico suono, una parola bellissima, mentre altri devono fare un giro di parole, non meno bello, poi. Ma mi piace proprio questo trovare soluzioni diverse per esprimere un concetto comune. Anche questo mi è piaciuto perché è un bell’approccio a una disciplina come l’economia, che in tanti troviamo sterile ma che ha tanta influenza sulle nostre vite e potrebbe anche, in realtà, contribuire a cambiare le cose in meglio. Bello anche questo Omaggio a Joyce.

Il dilettevole dilettarsi del dilettante (Elelioerill, aka Tale’s Teller) E’ un aspirante scrittore (o meglio, un futuro scrittore di fama internazionale). Ironico, con una buona dose di cattiveria che non guasta (anzi), se la prende con i tuttologi (o straparlatori di professione), con le vetuste saltacode, con chi maltratta la buona educazione e la lingua italiana, forse con la gente in genere (sempre? qualche volta? tutti? qualcuno in particolare? A voi scoprirlo…). Anche la presentazione merita!

Daniele Conventi è laureato in psicologia cognitiva e  autore di libri e storie con preferenza per l’horror e il fantasy (leggo dalla presentazione), ma scrive anche poesie (la mia preferita è questa Pensiero futuro perché sapete che ho un debole per le domande esistenziali e il tema della memoria, individuale e collettiva). Scrive anche recensioni e nella categoria quattro chiacchiere, invece, tratta argomenti vari, riflessioni che possano costituire lo spunto per domande e discussioni interessanti come le etichette che attribuiamo ai libri quando li classifichiamo in generi più o meno “nobili”.

Speraben Angelo Orlando Meloni): anche qui, ironia a go-go. E capacità di scrittura e di lettura, anche (che è forse ancora più importante. Per chi ama leggere qualcosa dell’autore (so che non per tutti è così) questa è la presentazione, interessante (ma a me le presentazioni interessano quasi sempre). Trovo poi affascinante questo articolo che è al tempo stesso recensione, post filosofico-scientifico-letterario e in un certo senso anche racconto. Non sono sicura di essere d’accordo su tutto (anche perché non sono sicura di avere capito tutto), ma mi ha fatto senz’altro venire voglia di saperne (e capirne) di più. Ci sono anche pezzi sul lavoro, la società in genere, frasi che assomigliano ad aforismi e molto altro. Io comunque segnalo quest’altra recensione perché non mi dispiacciono gli eroi imperfetti e soprattutto mi piace molto l’entusiasmo.

Tirai una freccia al vento (Lady Khorakhane): beh, in primo luogo dirò subito che una appassionata di Faber non avrei potuto non seguirla. Non posso scegliere un solo post tsu questo tema perché tutti meritano, le cover belle, quelle meno belle (ovviamente è soggettivo), i racconti ispirati, le citazioni, i post intimi che partono da una frase o una canzone… Ci sono poi gli articoli sulla vet life, l’ultimo è triste e io condivido l’indignazione e anche la rabbia ma per come sono fatta preferisco condividere il le piccole cose belle che a volte sono in grado di farci mettere da parte quello che ci fa star male. Nella categoria darsi un tono ci sono piccole e grandi perle, Garcìa Lorca, Bukowski, Brassens, Gaber… E infine segnalo questo perché mi è piaciuta un sacco l’idea dei ritratti di blogger.

Topper Harley C’è una grande voglia di raccontarsi, in questo blog. Di condividere, direi. Anche se la vita e i pensieri, ovviamente,m sono quelli di Alessandro, l’autore del blog, c’è la consapevolezza che mettersi in gioco possa servire non solo a chi scrive, ma anche a chi legge. Mi rispecchio molto in questo post su una certa, bellissima idea del mantenere la parte bambina, “l’equilibrio tra ciò che siamo e ciò che eravamo”, conservare almeno un po’ la capacità di meravigliarsi. C’è l’Africa e ci sono ni viaggi in generale, che hanno evidentemente una parte importantissima, così come i libri e la musica (anche lì, foto dei concerti ascoltati dal vivo, e non credo sia un caso). Ci sono pezzi di vita vera scritti bene come racconti, ma con la partecipazione di che non si limita a immaginare. Anche la to-do list è fatta con uno spirito che mi piace tanto (ci tornerò, magari per rubare qualche idea sulle prossime cose da fare…).

Accendi la vita (Elena) Anche qui viaggi, libri, molta vita quotidiana, tra lavoro e figli, affrontata con spirito e atteggiamento positivo, voglia di godersi tutte le cose buone, anche quando il generale prussiano calvinista (che è in molti di noi direi) cerca di imporre ordine, disciplina  e senso del dovere. Piccoli quadretti di vita familiare come questo, aneddoti ed emozioni ben noti quando ci si deve barcamenare in difficile equilibrio tra lasciar andare i figli, consentire loro di volare con le proprie ali, magari godendosi anche la libertà, la tranquillità e il tempo libero, ma sempre con un po’ di ansia e malinconia e quel po’ di destabilizzazione (anche positiva, naturalmente) che i cambiamenti portano sempre con sé. E poi, beh, anche in questo mi ritrovo. Parola per parola, praticamente 🙂 .

Livelinest (Eleide) Qui ho trovato racconti suggestivi e particolari come questo sulla suggestione della musica e la sua capacità di unire, di lasciare libero sfogo all’immaginazione, di essere via verso la libertà. La maschera e il rapporto tra illusione e realtà sembrano temi ricorrenti, se ne tratta ad esempio anche qui e in altri post. Un confronto che sembra vivere anche nell’accostamento delle immagini legate agli articoli, come in questo quadro di Magritte abbinato a una poesia che di nuovo è racconto di un  mondo che “è realtà” ma dove ognuno “riesce ad apparire, pur nascondendosi”. Immaginazione, impressioni, esperienze, narrazioni so0no del resto anche le parole chiave della presentazione dellautrice.

Vagone idiota ha un bellissimo motto, tanto per cominciare. Poi qui ha veramente poco senso indicare un post in particolare. Sono dialoghi acchiappati in treno (veri o verosimili) e riproposti con una minima descrizione dei “personaggi”, i lineamenti, i gesti, le azioni, ma soprattutto le parole. E la musica, perché ad ogni post corrisponde una specifica canzone ascoltata in cuffia, si suppone dall’osservatore/narratore. O forse da ascoltare, invece, per leggere i vari dialoghi con la giusta atmosfera.

IL BOSCO – PARTE IV – Capitolo II – ii

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Genova l’ha costruita il vento. Ha scavato la roccia e la sabbia e il cemento, si è insinuato tra le case per strappare un passaggio, ritagliarsi un cunicolo, prendersi, se non altro, lo spazio angusto di un soffio. Lo scirocco che arriva caldo, umido e salmastro in estate, la tramontana che in ogni stagione ripulisce aria e cielo, il libeccio, temibile scatenatore di mareggiate, e il ribelle mistral della Provenza, che qui diventa maestrale, solleva nubi cumuliformi e soffia dentro la voglia di fuga. Ciascuno di loro ha contribuito a dare alla città la sua forma, il ritmo del suo passo, il suo odore.
Non di rado, a Genova, il vento soffia freddo e cattivo e viscido e uccide anche le nuvole, e crea quell’uniforme, sterminato azzurro, immacolato, scintillante e gelido, in quelle giornate d’inverno in cui si sa che “sulle alture” probabilmente nevica. Altre volte, quando piove, ti sbatte l’acqua addosso, te la fa scivolare sotto sciarpe e cappotti, la intrufola tra le pieghe di gonne e pantaloni, fino a che l’umido ti penetra nelle ossa, e anche quando entri in un luogo caldo, continui a sentirti gelato.
In settembre, però, di solito non c’è che un’allusione di vento, una brezza senza cattiveria, un filo sottile attenuato dagli Appennini, ma già proveniente del nordest, dai paesi del ghiaccio. Settembre è cielo in trasferimento, passaggi di colore, e quell’aria gentile che ridipinge i banchi del Mercato Orientale: funghi e caldarroste e uva, il bruno scuro, il violaceo e il verde pallido, così nitidamente autunnali, proprio affianco all’arancio degli agrumi in allegro contrasto con i tralci di foglie color smeraldo rimasti attaccati al picciolo, al rosso vivo dei kaki, al carminio antico e all’oro pallido delle mele.

Il giorno in cui Andrea tornò a casa pioveva, ma Genova gli parve bellissima. Non si era mai accorto di quanto gli fosse mancata. Era stato bene a Londra, riconosceva che sotto molti aspetti le cose erano più facili. Aveva anche ottenuto grandi soddisfazioni professionali, e aveva tanto apprezzato l’infinità di cose che c’erano da fare, la sua gente multicolore proveniente da ogni parte del mondo, da affezionarsi alla nebbia, e da sopportare perfino la sua famigerata cucina, quando non aveva voglia di rovinarsi finanziariamente per assaggiare qualche scarno spaghetto in un ristorante italiano. Ma quanto era straordinario questo posto che si rintanava nella valle fino a lambire il mare, e poi si aggrappava alle colline, arrampicandosi sempre più su. Genova affondata nella sua conca, il punto di arrivo da tutte le sue valli, la maledizione degli automobilisti. Genova con le sue salite e discese da rimanere senza fiato, odiata, amatissima Genova.
Quei primi giorni Andrea li trascorse a bighellonare senza meta, cercando a memoria i suoi antichi punti di riferimento per non perdersi nei carruggi, scendendo per strade ogni volta diverse dalla bellezza medioevale di Porta Soprana e dalle rovine della casa di Colombo, o dallo splendore un po’ offuscato della rinascimentale Piazza De Ferrari, giù fino alla Ripa Maris, la murata degli antichi palazzi nobiliari sulla riva del mare. La sopraelevata lo colpì i nuovo con la sua bruttezza, come la prima volta che l’aveva vista, ancora ragazzino, alla sua inaugurazione nel ’65. Rumorosa, orrenda, e per giunta aveva diviso la città dal suo porto e dal suo mare, ma sembrava lo scotto inevitabile da pagare per il privilegio di vivere in una città che dagli Appennini si estendeva fino alla costa.
E appena ci si allontanava di pochi passi dal centro più in vista, dal “salotto” di Palazzo Ducale e del Duomo, si ritrovava l’altra Genova, quella dei carruggi, appunto, Genova riservata e nascosta, che come una di quelle bellissime piazze si apriva all’improvviso, rivelando una bellezza mai immaginata, sotto un sole inaspettatamente luminoso tra quei vicoli stretti.
C’è un’affascinante, strana convivenza, forse un po’ perversa, tra i grandiosi palazzi aristocratici che racchiudono tesori e i ghetti dei “tossici” e dei perdenti della terra, il contrasto tra le scalinate di marmo e le siringhe gettate forse per spregio, l‘incanto quasi doloroso di certe piazze e il degrado dei minuscoli “budelli” confinanti, testardamente cercato e difeso quasi con orgoglio, come a negare ogni bellezza della città, del mondo, della vita.
Ma Andrea si sentiva nato in quelle strade, erano casa sua, e non si stancava mai di scoprire un nuovo, bellissimo portone di ardesia o di marmo, una di quelle “edicole”, le commoventi e a volte stupende madonnine incastonate in una nicchia sulla facciata di una casa, gli scorci di San Matteo e San Cosimo viste da prospettive diverse, un angolo di mare che spuntava imprevisto alla fine di un vicolo. Altre volte invece ripassava per la commerciale, ottocentesca Via Roma, rivedeva lo splendore orgoglioso della Superba nei palazzi e nei musei di Via Garibaldi, l’antica Via Nuova. Ricordava bene quando Filippo li stupiva facendo da allegro Cicerone, mentre loro lo ascoltavano a bocca aperta raccontare le storie dei Fregoso – il nome è già tutto un programma, aveva buttato lì Marco a commento delle loro imprese non sempre eroiche – degli Embriaco, dei Doria, degli Spinola, dei Grimaldi, dei Brignole-Sale, di quando Genova era la più ricca, la più superba città d’Europa. Una repubblica in cui non c’era un solo principe, ma tanti banchieri, tutti impegnati a sfidarsi con la magnificenza dei loro palazzi. Fino a che si erano inventati un intero quartiere. La Via Nuova aveva fatto diventare Genova la “Città dei Palazzi”, un’ardita innovazione architettonica che ancora non esisteva da nessun’altra parte, e che Rubens aveva esportato nel nord Europa in una azzardata operazione di marketing ante litteram.
La pietra rosa di Finale, il bianco dei marmi, il grigio dell’ardesia, e poi ori, affreschi, statue, portali. E tutto questo alle porte della Maddalena, che già allora era il luogo dei “postriboli”, ovvero dei portuali e delle puttane, malfamato, degradato, vicinissimo eppure invisibile. Ma a guardar bene, se la Via Nuova aveva dalla sua l’imponenza stranamente aggraziata delle sue straordinarie strutture, ma con una certa freddezza quasi da luogo disabitato, da monumento storico, la Maddalena al contrario aveva il fascino degli odori, dei sapori, dei negozi che vendevano le cose più insolite, dei curiosi oggetti artigianali, delle spezie, in altre parole il fascino di un angolo della città vivo, vitale e popolatissimo.

E poi, ben lontana dal centro, c’era Boccadasse, colorata, allegra Boccadasse dal profumo di mare, perduta in un mondo tutto suo, con le piccole case da pescatori, un tempo disdegnate e adesso oggetto del desiderio di tutti. Un borgo marinaro in mezzo alla città. Il suo rifugio, dove ascoltava il placido mare della piccola baia mangiando l’insuperabile gelato di Amedeo, seduto sul muricciolo a guardare le barche. Gli sembrava che Genova stesse finalmente ritrovando se stessa. Come lui.
Aveva trovato a Boccadasse un appartamento piccolo ma confortevole vicino al mare, e se l’era praticamente creato su misura, con mobili dalle linee così semplici da essere quasi austeri, e tutto un mondo di oggetti coloratissimi, ognuno speciale, ognuno proveniente da un viaggio diverso, di quando era un ragazzino e col suo zaino in spalla se ne andava in giro. Era stato nei paesi della provincia italiana, in Francia seguendo un suo personalissimo “sentiero eno-gastronomico”, e poi a Cuba, per seguire il percorso dei viaggi del “Che”, e in Messico sulla rotta dei Maya, in America, a New York dove viveva sua sorella, e poi sulle Montagne Rocciose, e in Canada… Aveva foto del deserto delle Tabernas, dove le dune, le case bianche e quadrate e le palme facevano pensare alla Tunisia, e invece era in Spagna. Foto delle cascate ricche d’acqua e delle più fertili terre africane; foto dei frutteti che crescevano inattesi nel fiordo norvegese di Hardanger. Tutti i suoi scatti sembravano voler consapevolmente smentire qualunque aspettativa, qualunque luogo comune, per quanto magari fondato su solide basi di realtà, quasi a dimostrare che per ogni regola c’era sempre in agguato un’eccezione, a saperla cogliere. Era stato in mille posti, si era innamorato mille volte, ogni volta di un particolare diverso, ogni volta c’era qualche ragione speciale che lo avrebbe spinto a restare. Però alla fine tornava sempre.

UN LEONE A COLAZIONE 14 – Storie intorno all’adozione

pc5rrebni

Stasera mi sa che sarà una puntata mini perché sono stravolta… Vi dicevo la volta scorso che volevo parlare dell’ansia da prestazione scolastica… è una brutta bestiaccia quella. La scuola è un impegno grande per i ragazzi, ma per i genitori quasi di più. I genitori devono far fronte alle richieste degli insegnanti. Per i quali spesso i genitori sono comunque in torto a prescindere. Se il materiale scolastico non è in ordine, se i compiti non sono stati fatti, se i bambini non sono autonomi (no, scusate, ma se devono essere autonomi, allora la responsabilità di zaini e compiti… eh…). Ammetto (e mi cospargo il capo di cenere) che sono stata una di quelle mamme che aiutava tantissimo i ragazzi nei compiti, il grande fino a tutte le medie, il piccolo fino a tutte le elementari. Addirittura rientrando a volte nella nefasta categoria dei genitori che quasi quasi fanno i compiti “al posto” dei loro figli e poi aspettano trepidanti il voto per vedere se sono stati abbastanza bravi (i genitori, non i figli). Errori di gioventù. Nella maggior parte dei casi preoccuparsi dei compiti e della scuola in genere nuoce gravemente alla salute dei genitori, dei figli e del rapporto tra loro. Inizialmente, e sempre che abbiate moooolta pazienza, potete pensare certo di star loro vicino in maniera abbastanza assidua. Ma la parola d’ordine è quasi sempre “gradualmente ridurre”. Se proprio non è possibile, meglio chiedere a qualcuno esterno di affiancarli. Adesso sono arrivata quasi sull’orlo dell’eccesso opposto. Tra un po’ smetterò anche di chiedere se li hanno fatti, i compiti. Bisogna davvero aiutarli a imparare a fare da soli. Credo tra l’altro che questo valga un po’ per tutti i figli, ma i ragazzi adottivi hanno mediamente poca fiducia in sè stessi, e quella fiducia va alimentata credendo fortemente nella loro capacità di fare da soli. I voti, poi, sono l’ultima preoccupazione, vi diranno in tanti, e avranno ragione. In genere, il “rendimento scolastico” tende a essere discontinuo nella migliore delle ipotesi. Quando i ragazzi sono sereni e tranquilli, le cose a scuola tenderanno a migliorare. Ma è un percorso lungo lungo e molto accidentato. Di solito. Non farsi troppe paturnie aiuta. Se la caveranno, se crediamo in loro 🙂

Qualcosa che brucia (leggendo Bukowski)

Scrivo tanto. Oh, lo so. Ma appunto, c’è qualcosa che brucia dentro. Forte.

Succede, poi, di farci l’abitudine
a starsene un po’ in disparte,
un passo indietro, non troppo dentro alle cose
come a non avere più vento per andare.
Io avevo aperto la finestra e pensavo
che almeno un frammento di mondo
devi pur lasciarlo entrare, presto o tardi
Tutte queste strade, tutte queste stelle
disperse in innumeri cieli distratti
che lasciano volar via i pensieri
e restituiscono aquiloni colorati in volo.
Ma a che serve?
A che serve questo amore infinito ed eterno,
il riflesso tremulo del vento nelle foglie?
si piega come una canna docile il mio cuore
ma a che serve?
Potrei pregare per il sangue, la morte,
l’aria riempita della danza dei rapaci,
potrei gridare, oh, non passerebbe giorno
ma a che serve?
Preferisco non soffocare il riso, preferisco
far voto al sole di ridere per sempre in ogni luogo
di proteggere il mio piccolo spazio in cui vivo
la mia vita e morirò, lo spero, la mia morte
non la loro vita, non la loro morte
non il loro odio, né il loro amore
il mio amore, la mia rabbia, forse
il tuo amore, certo.
Scrivere, certo.
Che lo so io se non c’è qualcosa che mi brucia dentro.
Il tuo poeta, certo.
La tua bocca, la tua mente, le tue viscere, certo,
perché sono i miei
e serve, oh, lo so che serve
non agli altri, no, a nessun altro, a pochi, a qualcuno
ma serve
la tua vita, la mia vita, la tua morte, la mia morte
perché voglio morire nel tuo oceano, tremarti
come una piccola foglia sulle labbra
Questo mi serve.