Non abbastanza

Io amo. Amo moltissimo. A volte più i personaggi delle persone reali, più le persone lontane di quelle vicine, più i morti dei vivi. A volte, le persone reali, vive e vicine le amo tanto da vederle a fondo, averne rabbia e paura e amarle lo stesso, tanto che non mi sembra nemmeno abbastanza. Amo le loro ginocchia e le mani, le loro bugie, le loro impressioni sbagliate, le sbucciature, le ferite e il sangue, i loro ritorni e le ripartenze, e la voglia di viaggiare più ancora dei viaggi. Amo le righe, e le letture tra le righe, i percorsi a zigzag, gli scarabocchi, le crêuze (molto più delle strade). Amo le caviglie, specialmente quelle un tempo avvolte da catene saldate a sfere di piombo, le palle al piede, e i segni che portano le persone che si sono liberate. Amo le persone e le loro storie, le dita, le ossa, le vigilie dei compleanni, le cosce tremanti e rannicchiate per l’orrore di qualcosa, che forse è solo un brutto sogno, forse no. Le fughe, le note musicali, i segreti di Pulcinella, le cose che non vanno dette e i pensieri colpevoli, i tralci di vite, i rami di alloro e gli alberi sacri della vita e della conoscenza. Le mele, il chiasso, i figli e i loro silenzi duri, i loro abbracci favolosi e pieni d’incertezza, le persone incontrate per caso, i giardini inglesi, le piogge ininterrotte, gli oggetti aggiustati alla meno peggio e le rotture irreparabili. Gli screzi, le screziature, gli urli liberatori, i gesti teatrali e le scene melodrammatiche, le foto in bianco e nero, le stoffe, le passeggiate a mare, le creature solitarie. Amo le persone e le loro voglie insoddisfatte, i loro capelli, i gomiti e i soffitti delle loro stanze, le soglie delle porte, le tessere dei mosaici e le pietre da coastruzione. Amo moltissimo. Infatti non è abbastanza.

Non ho tempo, non ho vita (post malinconico ma non troppo)

Dei primi quattro blog aperti oggi, tre parlavano del tempo, come protagonista o come comprimario, ma comunque centrale (questo, questo e questo). Il tempo che determina quello che possiamo e non possiamo fare, che accelera o rallenta secondo le nostre percezioni, che ci definisce e segna i nostri confini, dando vita alla memoria, all’immaginazione del futuro e, nel migliore dei casi, a un’intensa consapevolezza del presente.

Tempo fa, in un seminario per il resto inutile sulla gestione del tempo, una frase mi rimase impressa: il tempo coincide con la vita, per cui, quando diciamo “non ho tempo, non ho avuto tempo”, è come se dicessimo “non ho vita, non ho avuto vita”. Mi colpì in quel momento, e da allora ogni tanto ci torno col pensiero, perché pur non essendo neppure questo, probabilmente, un concetto originalissimo, credo sia molto raro metterlo effettivamente in pratica.

Per che cosa “non abbiamo vita”? Per ciò che ci annoia, ci irrita, ci infuria, ci addolora, o per le cose di cui ci importa realmente, ma che lasciamo per un indefinito “dopo” che forse rischia di non arrivare mai?

Nei limiti del possibile, ho deciso di dedicare il tempo, la vita, non solo e non tanto a “quello che amo” (concetto dai contorni spesso più sfuggenti di quello che saremmo portati a pensare), ma a “quello di cui mi importa”. A volte, questo ha significato dover ribaltare il modo di vedere alcune cose: amo spolverare, lavare i pavimenti, pulire il bagno? Certo che no, ma è importante come cura di me e della mia casa, il  mio nido, il posto in cui vivo (e fermo restando che anche altri ci vivono, e la loro collaborazione è essenziale).

Ho cambiato lavoro anni fa, e per giunta da uno considerato in generale più “prestigioso” e potenzialmente lucroso (tranne che da chi lo esercita), a uno meno socialmente considerato e decisamente più compatibile con i miei talenti, i miei desideri, il mio tempo. Lavoro che non sempre amo, ma che mi importa svolgere al meglio delle mie capacità, per soddisfazione, per orgoglio, per il tempo che ci dedico, e cì, anche per il vile denaro, che mi permette a sua volta (quando va bene) di dedicarmi ad altre cose di cui mi importa moltissimo, come i viaggi, o il giardino.

La scrittura la amo, qualche volta, ma mi capita di odiarla. In ogni caso, me ne importa, e moltissimo. Le persone a me care le amo sempre, ma spesso ho preferito e preferisco la solitudine, purché, naturalmente, temporanea.

Tutto sommato, ogni cosa che scegliamo di fare ha per noi, “in quel momento”, la priorità, tanto da dedicarle pezzi di vita, a scapito di altre. Continuiamo pur sempre a non poter fare tutto, a dover selezionare. Penso sia questo il punto. L’importante è sapere che le priorità cambiano, e che il tempo, la vita, richiede un ascolto costante. Inutile forse rimpiangere le scelte fatte in passato: evidentemente avevano, per noi, un valore; ma utilissimo, secondo me, ripassare ogni tanto quelle scelte, capire se valgono ancora, abolire tutti gli ormai, per non dover poi trovarci a dire alla fine della giornata (in senso reale e metaforico), “non ho  avuto abbastanza vita”.

Ho bisogno

di riprendere il contatto con la realtà

di dormire meno e riposare di più

di allegria

di imparare a memoria un po’ di canzoni di Natale per cantarle con Figliopiccolo

di buone notizie

di soldi

di poesia

di scintille di follia

Musica e finestre

La colonna sonora di The Marvelous Mrs. Maisel è fantastica. Io, almeno, la trovo fantastica. Adoro la musica anni Cinquanta, e non mi ero resa conto fino in fondo di quanto, in effetti, l’adoro.

A parte questo, stasera mi sono resa conto che è decisamente troppo tempo che non parlo di Robin, non guardo i suoi lavori, non leggo e non ascolto quello che aveva da dire. Ho tenuto la finestra chiusa, forse in attesa di un’ispirazione per il libro che chissà se vedrà mai la luce, o se la vedrà come io lo avevo pensato, desiderato, immaginato. È comunque ora di riaprirla. Forse è quella finestra chiusa che mi ha bloccato al punto da smettere di scrivere. È quella finestra chiusa che mi toglie l’aria e la luce di cui ho bisogno, nonostante le molte cose di cui continuo a innamorarmi. Ma Robin, oh, Robin…

Tempo di serie tv

Non sono mai stata tanto un tipo da serie tv. Da ragazzina, ho seguito saltuariamente alcuni telefilm, coe si chiamavano allora; e in modo costante solo due: Happy Days, e naturalmente Mork e Mindy, che forse ho amato a tal punto da farmi temere di non poterne amare altrettanto nessun altro. Il che è vero, ma non mi impedisce, oggi, di guardare qualche fiction con piacere.

L’altro giorno accennavo a Downton Abbey e alle sue atmosfere da Inghilterra degli anni ’20 (del Novecento, of course): le vicende della famiglia Crawley (conti di Grantham) e dei loro domestici mi hanno assorbita in maniera quasi inattesa. Ogni personaggio ha un carattere complesso, sfaccettato, tanto da sembrarmi a volte più reali (nel senso di concreti) delle persone in carne e ossa. È un rischio, temo, ma lo corro volentieri. Da Lady Mary, bellissima, aristocratica, attaccatissima alle tradizioni e agli agi della sua famiglia, e tuttavia dotata di dolcezza, generosità e di un senso di ironia che le fanno perdonare certi spigoli, alla sorella Edith, che risente moltissimo delle attenzioni riservate alla maggiore, fino a quando non riesce a “emanciparsi” e trovare un proprio spazio, ad Hannah, la cameriera personale di Mary, forse la donna più onesta, diretta, leale e dal carattere più forte dell’intera serie. Da Thomas, il valletto (e in seguito maggiordomo), astuto e calcolatore, morso dalla gelosia e dall’invidia, ma anche capace di gesti coraggiosi, e inoltre tormentato dalla solitudine e dall’amarezza, tanto da suscitare compassione in diverse occasioni; allo sfortunato Tom, l’autista che è riuscito a conquistare Sibyl, la sorella di Lady Mary, solo per perderla e ritrovarsi in bilico tra due mondi, a disagio in entrambi. Dal Signor Bates, taciturno, introverso e pronto a sacrificarsi in qualunque momento per evitare un male a chiunque altro, eppure non immune da un certo istinto vendicativo, a Lord e Lady Grantham, le rocce da cui dipende l’unità della famiglia nei momenti di tempesta. Da Mrs. Hughes, la governante, dura e severa, attaccatissima al dovere, ma dal cuore d’oro, all’inappuntabile Carson, con il suo passato sorprendente. E poi, certo, la fantastica Lady Violet (Maggie Smith) nonna cinica, sardonica, conservatrice di ferro, dalle convinzioni radicate e saldissime (anche se non incapace di ricredersi, quando ce n’è ragione), estremamente a disagio con le dimostrazioni di affetto, ma capace di sentimenti profondi, e che copre con l’apparente arroganza la fragilità di chi sente il proprio tempo inesorabilmente avviarsi verso la fine, in più di un senso. 

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Mi fermo qui, ma ognuno meriterebbe uno spazio, ognuno “ha” uno spazio e si ricordano tutti, e questa la trovo una prova di bravura, sia del creatore Julian Fellowes (che è anche il principale sceneggiatore), sia del regista e degli attori.

Di recente, per motivi diciamo linguistici, ossia per far pratica di inglese parlato “americano” (più specificamente newyorkese), ho iniziato a guardare un’altra serie, IThe Marvelous Mrs. Maisel, ambientato negli anni Cinquanta, su una ragazza ebrea di buona famiglia che, perduta da un giorno all’altro la sua vita apparentemente perfetta in seguito all’abbandono del marito, si scopre un talento per l’improvvisazione comica. Ho visto le prime tre puntate, non è male Io sono di gusti difficilissimi per quanto riguarda l’improvvisazione comica, essendomi affinata il palato con il più grande di tutti, ma comunque, per il momento non ho perso la voglia di continuare a guardarlo, nonostante, tra l’altro, non sia facile da capire.

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