Il periodo che seguì fu durissimo.
Avevo accarezzato l’idea per alcuni giorni di fare il doppio gioco. Tornare da Giannino con delle informazioni preziose. Dimostrargli la mia lealtà. Stavo buttando a puttane gli uomini che erano stati per me padri e fratelli per oltre quindici anni, infame ai miei stessi occhi, ultimo anello di un verme. Ma quelle tre righe continuavano a danzarmi beffarde davanti alla faccia.
E poi c’erano i giornali. Mai ero stato sul giornale nella mia lunga vita di delinquente, se non in minuscoli trafiletti ignorati praticamente da tutti. Ma inevitabilmente nel nostro “lavoro” avevamo avuto rapporti con persone dalla maschera molto più immacolata della mia. Medici che facevano certificati falsi per far uscire qualcuno dal carcere per motivi di salute; avvocati e notai che andavano per i loro clienti ben più in là di quanto richiesto dalla professione; tutte persone di cui la gente normalmente crede qualunque cosa purché turpe. Loro però sapevano difendersi bene. Sapevano che c’è solo una categoria di persone che la gente disprezza più di un criminale, ed è quella degli “infami”, dei pentiti. Io avevo sovvertito ogni regola. Non quando avevo intrapreso la carriera criminale. Un criminale lo disprezzi, ma lo capisci. Un infame non puoi capirlo. Mente o dice la verità? E’ realmente pentito o solo un opportunista? E’ la destabilizzazione che la gente non perdona. I giornali mi misero a nudo, inventando dove la verità non bastava. Mi chiamarono mostro e animale, per reati che mai avevo commesso. Ero spacciatore e complice di assassini, ma per quanto possa riuscire difficile accettarlo a un estraneo, c’erano cose per me più in basso nella scala morale.
– Mi tiro indietro – dissi al dottor Rossi. – Stavo cercando di aiutarvi, e mi creda, mi faccio schifo da solo. Credevo di essere disposto ad accettare qualsiasi cosa, ma questo è troppo.
– Non posso aiutarla. Coi giornalisti parlo il meno possibile in questa fase delle indagini e ovviamente non ho diffuso io queste cose. Ho cercato di darle quest’occasione di uscirne, ma mi interessa più che altro nella misura in cui mi è utile per le indagini. Sta a lei accettarla o meno. Non sarà l’ultima volta che lei si troverà in una situazione difficile. Le ho spiegato come stavano le cose prima che lei iniziasse a collaborare con noi, le ho detto che non doveva aspettarsi un letto di rose. Lei ha fatto la sua scelta anni fa, adesso può andare avanti con quella scelta oppure tornare indietro. Ma non può aspettarsi che sia facile. Non lo sarà.
Non lo fu.
Mille volte mi svegliai di notte credendo che Giannino mi avesse trovato. Mille volte mi svegliai sognando cadaveri con la bocca spalancata e gli occhi fuori dalle orbite. Mille volte pregai di morire, desiderai non essere mai nato. E per tutti i cinque lunghi anni in cui rimasi in carcere, ogni volta che sembrava esserci una qualunque anche vaga possibilità di uscire, a un tratto diventavo aggressivo. Insultavo le guardie, prendevo a pugni il compagno di cella per una parola. Così regolarmente il tribunale di sorveglianza respingeva la richiesta di scarcerazione, io andavo in escandescenze e mi sentivo lasciato solo e tradito, ma la volta dopo mi comportavo allo stesso modo. Perché non sapevo se avrei avuto il coraggio di affrontare la vita fuori. Abituarmi a uno stipendio per me da fame, e spesso in ritardo, a quanto mi dicevano. La perdita della mia identità, dei miei luoghi. La paura. Gli incubi. Il carcere era un luogo relativamente protetto.
Ricordo il pezzo di mondo che si vedeva dalla finestra della cella. Un pezzo molto piccolo. Strada, angolo di una casa, facciata di un’altra casa, mezzo albero. E ricordo parola per parola quello che dissi alla psicologa, in uno degli ultimi colloqui prima che finalmente mi permettessi di uscire da lì.
“Darei la vita perché ci fosse Dio. Che la frase è assurda me ne rendo conto benissimo anch’io. Ma ho una paura fottuta e un pezzo di me scompare per sempre ogni volta che parlo, ogni volta che faccio un pezzetto di strada. Un pezzettino della mia vita di meno. Stanno diventando tanti, troppi quei pezzi di vita persa per cercare di ritrovare un senso. Un senso per chi? Se questa è l’unica vita che abbiamo, chi diavolo se ne importa quanto è lunga, e quanto male possiamo fare, e quanto male possono farci. Dopo finisce, kaputt, cancellato.
Se non c’è Dio, per chi dovrei tornare ad avere una coscienza? Perché dovrei sentirmi vivo di più adesso, più di quando giocavo con la vita e la fottevo ogni giorno, e non c’erano finestre da abbracciare questo pezzo di strada, non c’era fuoco che bruciasse abbastanza forte da incendiarmi il cuore, non c’erano occhi abbastanza grandi per voltarsi mai a guardare indietro?”
Forse neanche oggi so rispondere a quelle domande. Il senso non l’ho mai trovato, e non so perché mi sento vivo. Eppure oggi sono qui. Qui nel negozio dove lavoro, dove tutti i giorni le persone passano, comprano e mi salutano, come se fossi una persona normale. Dove ogni tanto una donna entrando o uscendo mi sorride e io mi chiedo se un giorno mi permetterò di avere bisogno di qualcuno. Ho capito che posso essere un uomo senza essere un santo, un eroe o un assassino.
Ho ancora gli incubi qualche volta. Ma non ho più paura del buio e del silenzio.