“Comunicazione di servizio”

Per un paio di mesi non riuscirò ad avere regolarmente la connessione e quindi a postare le rubriche settimanali senza problemi. Cercherò di pubblicarle nel giorno giusto quando riesco, ma potrà succedermi di ritardare o saltare qualche volta. Naturalmente cercherò comunque di leggervi per quanto possibile. Grazie, a prestissimo comunque!

IL BOSCO – PARTE IV – Capitolo VIII – I

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I

Pioveva.
Stéphanie amava la pioggia, le piaceva sentirsela scorrere addosso, fresca e allegra. Quando stava bene, la pioggia la faceva sempre pensare a “Singing in the Rain”, e rivedeva Gene Kelly che danzava il tip tap per le strade di New York. E adesso stava piuttosto bene. Forse perché Matteo le aveva appena scritto, forse perché la sua amicizia con Adrien procedeva come un’oasi di serenità nella sua vita altrimenti solitaria, forse perché, semplicemente, aveva deciso che voleva stare bene.
Anche se pioveva non aveva voluto rinunciare alla passeggiata domenicale nella foresta che era diventata la meta abituale di quelle escursioni con Adrien.
Era stata un’estate torrida, e la settimana prima era stata colpita dall’aria sofferta, assetata della terra e delle piante. Era contenta che fosse arrivata la pioggia, perché tutto adesso era di un verde più brillante, più intenso.
Si erano spinti piuttosto in là, come al solito. Ad entrambi piaceva molto camminare, e quando chiacchieravano quasi non si accorgevano delle distanze, né della fatica. Ma all’improvviso, un primo lampo attraversò l’aria, seguito dal cupo rombo di un tuono in lontananza. Fino a poco prima, nonostante la pioggia, il cielo era stato di un colore grigio perla quasi elegante e per niente minaccioso. In pochi minuti, era diventato scuro e pesante e metallico, come se davvero fosse fatto di piombo. Involontariamente, Stéphanie strinse più forte la mano di Adrien.
– Hai paura dei temporali! Credevo che non avessi paura di niente – la prese in giro lui.
– Immagino che a te, invece, non ci sia niente che ti spaventa – lo rimbeccò lei, imbronciata.
– Ma certo che c’è. Io odio gli aerei. Se fosse per me, andrei in treno anche in Australia. Fortunatamente finora non mi hanno mai chiesto conferenze in Australia. In un paio di occasioni comunque ho dovuto volare, e ti assicuro che non è stata un’esperienza piacevole.
Adrien sorrideva, la consueta aria equilibrata e rassicurante un po’ da professore.
Ma l’atmosfera era vagamente inquietante. Forse era quell’oscurità così fitta, alle due di un pomeriggio d’estate. Le luci del paese più vicino erano avvolte nella foschia, rese irreali dalla distanza, e gli alberi sembravano assumere forme vagamente umane, tanto che quando la maglietta le si impigliava in un ramo, Stéphanie provava quasi l’impulso di gridare.
– In momenti come questi non sono sicura che le streghe non esistano – commentò.
– Sarebbe un’occasione straordinaria. Credo che tra poco qui si scatenerà il finimondo, e se saremo bloccati qui, forse assisteremo a un sabba!
– Restare bloccati qui? Non scherzare!
Lui tornò subito serio.
– Mi dispiace, Stéphanie, ma ho detto la verità quando ho detto che sta per succedere di tutto. Non hai visto il cielo? Non puoi correre per chilometri in un bosco con un temporale.
In quell’istante, la luce di un lampo li abbagliò, vicinissima. Stéphanie si ritrasse istintivamente. Sembrava terrorizzata, e Adrien la strinse più forte, protettivo.
– Non succederà niente, te lo prometto – Le disse con dolcezza. E Stéphanie si sentì confortata, come se davvero lui potesse tenerla al sicuro dagli elementi.

Il fragore assordante di un tuono, e presto una pioggia violenta e sferzante fino a far male creò una cortina che rendeva invisibile il sentiero. Proseguire era difficile, tornare indietro sarebbe stato del tutto impossibile.
Stéphanie provò l’impulso di mettersi a piangere.
– Non credevo che sarebbe successo così presto – nonostante tutto, la voce tranquilla di Adrien ebbe ancora un effetto rassicurante su di lei. Ma ogni lampo la faceva sussultare, e si aggrappava al braccio di lui come a un’ancora di salvezza.
Adrien non l’aveva mai vista così fragile. Doveva trovare al più presto una soluzione. Quell’istinto di protezione che si era risvegliato in lui lo stupiva, ma non era affatto sgradevole.
Come se il rovescio non bastasse, si era alzato anche un vento impetuoso, che gettava loro addosso torrenti d’acqua e a tratti rischiava quasi di far perdere l’equilibrio. Erano bagnati fino alle ossa, infreddoliti e anche spaventati, benché Adrien riuscisse a mantenere un certo controllo.
All’improvviso Stéphanie si mise a ridere.
– Cosa c’è di tanto divertente? – Adrien la guardava stupefatto.
– Niente – ammise lei, con le lacrime agli occhi, quasi soffocata da un altro scoppio di ilarità. – E’ sciocco, lo so. Ma all’improvviso l’idea di essere qui, tutti fradici come due pulcini, persi in mezzo a un bosco senza poter andare né avanti né indietro mi è sembrata buffa. Immagino che sia la paura. Non preoccuparti, comunque, non avrò una crisi di nervi.
Adrien sorrise con ammirazione. Era sicuro che lei non fosse in preda a una crisi di nervi. Doveva ringraziare, anzi, di essersi trovato in quella situazione con una donna come lei, perché molte probabilmente avrebbero pianto e strepitato e perso la testa, rendendo tutto ancora più difficile.
– Ricordati, Barbara / Pioveva senza tregua quel giorno su Brest / E tu camminavi sorridente / Raggiante rapita grondante / Sotto la pioggia… – citò. – E’ di Prevert. Ti somiglia, anche se in questo momento non sei così raggiante e rapita. Grondante sì però. E credo che nessun’altra donna potrebbe ridere allegramente sotto questo torrente d’acqua. – Poi tornò serio.
– Senti, Stéphanie, mi è venuto in mente che poco distante da qui c’è quella baracca abbandonata, dove una volta abbiamo visto dei bambini che giocavano. Direi di provare a dirigerci laggiù se sei d’accordo.
Stéphanie annuì pensosa, e di nuovo si sentì presa dall’inquietudine, ma questa volta non aveva niente a che fare con la tempesta.
D’altra parte, l’idea di trovare un rifugio non era un sollievo da poco, e diede a entrambi l’energia necessaria per andare avanti sotto il vento sferzante e gli scrosci d’acqua. Corsero tenendosi per mano, anche per evitare di perdersi. L’oscurità diventava più fitta ad ogni momento.
La “baracca” era in effetti una costruzione di legno con il tetto in lamiera, che probabilmente un tempo conteneva degli attrezzi, ma era ormai evidentemente in disuso. Stéphanie pensò con una punta di ribrezzo a quale tipo di animali potevano averne fatto la loro tana, ma bisognava fare di necessità virtù, e lei era ben decisa a non lamentarsi. Era già una bella fortuna aver trovato un posto dove ripararsi dal freddo e dalla pioggia.
Il temporale non accennava a diminuire, e con il vento le finestre piuttosto malridotte della piccola costruzione scricchiolavano e sbattevano con un rumore alquanto sinistro.
– Hai un fiammifero? – chiese Adrien.
Senza parlare, lei gli tese la scatoletta. Dopo un momento, lui emise un’esclamazione che parve quasi di trionfo.
– C’è della legna qui dentro. So che probabilmente appartiene a qualcuno, anche se qui sembra tutto abbandonato, ma questa è un’emergenza. Se riusciamo ad accendere un fuoco, potremo scaldarci e asciugarci un po’.
Vedendo la fiammella che cominciava a crepitare, trasformandosi in poco tempo in un bel fuoco caldo e vivace, a Stéphanie venne da pensare che aveva ragione suo nonno a dire che l’uomo ha bisogno di molto poco per sopravvivere, e può in certe situazioni rinunciare a cose che normalmente sembrerebbero assolutamente indispensabili. In qualsiasi altro momento quella squallida baracca non proprio profumata le sarebbe sembrata un posto inavvicinabile, avrebbe voluto una poltrona, una bella vestaglia calda, un libro e magari una tazza di tè o di cioccolata bollente, e adesso il solo fatto di avere un tetto sulla testa le sembrava già tanto, ed essere riusciti ad accendere un fuoco si avvicinava molto a un miracolo.
– Non sarà pericoloso, con queste pareti di legno, vero?
– No, basta stare attenti.
Adesso che si sentiva al riparo, e poteva avere luce e calore, Stéphanie tornò di buon umore.
– Senti, Stéphanie, non vorrei che la prendessi male, ma io suggerirei che ci togliessimo i vestiti per farli asciugare, altrimenti secondo me rischiamo una polmonite.
Lei esitò. La sua amicizia con Adrien era diventata molto profonda, ma comunque si sentiva a disagio all’idea di spogliarsi davanti a lui, tantopiù che sapeva di piacergli, e non era lei stessa esente da una certa attrazione.
– Se vuoi non ti guarderò neppure – disse Adrien, ed era quasi sincero. In realtà, si era chiesto se non stava almeno un po’ approfittando della situazione e si era risposto che probabilmente sì, lo stava facendo. D’altra parte, gli era caduta sulla testa come la mela di Newton, e comunque rischiavano davvero un malanno a tenersi addosso quegli abiti fradici.
Alla fine Stéphanie si decise. Lui si girò dall’altra parte, dandole le spalle, ma passato il primo momento di imbarazzo improvvisamente le parve ridicolo formalizzarsi. Avevano condiviso tante cose, avrebbero condiviso anche questa.
Per Adrien, invece, le cose erano più difficili. Lei era rimasta in reggiseno e mutandine, e la vicinanza del suo corpo gli dava un calore ben diverso da quello del fuoco, ben più intenso.
– Sarà meglio aggiungere un po’ di legna sul fuoco – disse, alzandosi quasi di scatto. – In realtà non era affatto necessario, ma aveva bisogno di un attimo di respiro.
In quel momento però, una raffica di vento più forte sembrò quasi far ballare l’intera catapecchia, e un lampo squarciò l’aria così vicino che parve puntare direttamente su di loro. Tutte le paure di Stéphanie tornarono.
– Non ti allontanare – gli disse, aggrappandosi al suo braccio. L’unico ritrovato moderno che le sembrava indispensabile in quel momento era un parafulmine.
Ma quel gesto, il modo in cui l’aveva guardato, chiedendogli di proteggerla e dandogli tutta la sua fiducia, lo aveva toccato nel profondo. Per troppo tempo aveva tenuto addormentate tutte le sensazioni che potevano metterlo in pericolo, per troppo tempo aveva cercato di dominare tutto, razionalizzare tutto, essere sempre controllato in ogni momento della sua vita. E adesso la passione esplose inarrestabile, facendogli perdere la testa.
La baciò, accarezzandola, stringendola, toccandola. Pensava che lo avrebbe respinto, e voleva prendere tutto quello che poteva, sentire il suo corpo finché lei glielo consentiva.
Ma lei non lo respinse. Era stata rabbia la prima cosa che aveva sentito. Come osava? Se non la stava violentando, ci mancava poco. Stava approfittando di un momento in cui era particolarmente vulnerabile. Aveva sempre sospettato di essere il membro più debole, in quella loro curiosa alleanza. Ma mentre per la sua testa passavano questi pensieri, già ricambiava il bacio, sentendo risvegliarsi la voglia di passione, di piacere, di oblio.
E lui, che dopo il primo attimo di sbandamento si era quasi pentito, e si aspettava una reazione violenta, o tutt’al più un passivo abbandono, si trovò stretto a lei che non voleva più lasciarlo.
Qualcosa che ancora c’era rimasto di razionale in lui gli diceva di non farsi illusioni, ma per la prima volta in tanti anni lui non voleva che la ragione controllasse i suoi sentimenti. Voleva solo quello che stava succedendo, qui e ora, anche se fosse stato solo per una sera, ma sì, chi se ne frega, andava bene così.
Quando Stéphanie staccò infine le labbra dalle sue fu solo per poggiare la testa sulla sua spalla. Lui le carezzò i capelli e pensò Dio quanto tempo che non compiva quel gesto su una donna, e come era bello.
Il fuoco adesso si stava spegnendo davvero, ma nessuno dei due parve farci caso fino a che l’ultima scintilla si fu spenta e si trovarono immersi nel buio, con solo la brace che continuava a bruciare.
– Bisognerà riaccenderlo – mormorò lui, ma senza convinzione, e non si mosse, anche perché lei non gli avrebbe permesso di toglierla da dove si trovava. Non aveva più né freddo né paura.
– Stai bene? – Le chiese lui con dolcezza.
– Meravigliosamente – rispose lei, con voce inconsapevolmente sensuale, appena velata forse dal fumo, o dalle troppe sigarette che aveva fumato pensando a Matteo, o forse dall’improvvisa consapevolezza di quello che stava per succedere.
Quello che è certo è che il desiderio che vibrava in quella voce roca, il suo improvviso abbandono, riportarono l’eccitazione di Adrien ad un livello incontrollabile. Riprese ad accarezzarla con gesti sempre più intimi, e il fuoco che era in lui venne alimentato ancor più quando lei cominciò a ricambiare quelle carezze. Quando alla fine fece l’amore con lei, fu con una tale intensità, una tale forza, da spaventarlo. Mai il termine “possedere” era stato più appropriato. Voleva averla, sentirla sua, sentirla dentro di lui, nel suo corpo, nel suo sangue.
Stéphanie, invece, non era spaventata. Quel che di selvaggio che c’era stato nel modo in cui lui l’aveva presa le aveva impedito di farsi domande, rendendo più completo il suo abbandono, cancellando la paura, annullando il dolore. Le cose che aveva considerato tanto importanti nella sua vita erano avvolte in una nebbia che le rendeva confuse e remote.
Nell’assoluta pace, in quel silenzio carico di promesse che erano state mantenute, in cui non c’era più né violenza, né ansia o smania di nulla, ma solo dolcezza, Adrien decise di dirlo:
– Ti amo. – Erano le parole sbagliate, e lui lo sapeva. Sapeva che lei non avrebbe risposto, perché se avesse risposto avrebbe dovuto dire cose che non le sembrava giusto dire, tanto lui comunque le conosceva già. Non gli importava. Non si sentiva tradito, al contrario, aveva avuto molto più di quanto si aspettasse. Per questo aveva voluto dirglielo, per vivere fino in fondo il suo ritrovato coraggio.
E adesso che i lampi si stavano allontanando, i tuoni non erano altro che sommessi brontolii, e la rabbia del cielo era diventata un’irritazione senza più minaccia, Adrien sapeva che questo avrebbe chiuso la loro storia, che con la tempesta era cominciata e con la tempesta sarebbe finita. Erano stati, com’era quella frase così sciocca, due treni che si sfioravano nella notte, sì, qualcosa del genere. Ma era stata una bellissima notte, e sfiorarsi era stato fantastico.

47. The Final Cut

Questo film l’ho amato da subito e però la prima volta non ho capito molto bene perché. I thriller non li disdegno, ma non mi attirano neanche più di tanto. Mai amato particolarmente il sangue, le atmosfere oniriche, men che meno poi quelle da incubo, né i film ambientati in un futuro tecnologico, né gli eroi solitari che affrontano forze più grandi di loro. Di solito. Potreste pensare – e avreste la vostra parte di ragione – che se l’eroe solitario in questione è Robin Williams la musica cambia, almeno per me. E certamente cambia, e in realtà non solo per me, perché Alan Hackman è tutt’altro che un monolite il cui unico tratto distintivo è la violenza e le cui espressioni, per parafrasare un cattivo giudizio (forse ingiusto) dedicato a un famoso interprete di giustizieri senza macchia e senza paura, si differenziano tra “col cappello” e “senza cappello”. No, Alan Hackman qualche macchia ce l’ha e anche qualche paura, e questo già contribuirebbe a rendermelo più caro. Ed è un uomo così complesso e sfaccettato da uscire fuori dal film, proprio come i protagonisti di quei libri di cui si dice che “saltano fuori dalla pagina”.
E’ un montatore, Alan, ma un montatore non comune. Perché nel tempo in cui vive, un futuro non troppo lontano, le persone possono farsi installare un chip in grado di registrare le memorie di tutta la vita. Ci sono però memorie che certo nessuno di noi ha piacere di ricordare. E qualcuno sicuramente ne ha alcune che vuole cancellare per sempre, anche dalla propria stessa mente, ma soprattutto dalla mente di coloro che rimangono dopo la propria morte. È appunto questo che fa Alan: richiestissimo per la sua capacità di scegliere i ricordi migliori e rimuovere gli altri, di costruire i “Rememory”, sorte di funerali in cui viene proiettato un film della vita del defunto. La vita, naturalmente, che chi resta vorrebbe che avesse vissuto.

Lui vede con le pupille degli altri, questo, secondo i contestatori della Zoe Tech, la società per cui lavora, lo dovrebbe poter fare solo Dio. Alan fabbrica dei falsi, omette quello che va omesso, lascia quello che va lasciato, ma lo fa con una coerenza e un rispetto (per i vivi, non per i morti) che danno al suo lavoro quella dignità che non tutti sono disposti a riconoscergli. Come gli dice Delila, la donna che lui non ha il coraggio di amare, vive molte vite, ma alla fine hanno un senso? Acquistano una logica, un ordine, quando diventa possibile ripercorrerle al contrario, dalla fine all’inizio? Avrebbe anche lui diritto di vivere la propria, ma in fondo è come un lettore e uno scrittore insieme, osserva le vite, le ricrea, le reinventa, e così ne percorre moltissime senza essere, forse, dentro nessuna.

Lui stesso, naturalmente, ha i suoi ricordi. Ma sono reali quei ricordi? Fino a che punto? Un montatore non può farsi installare un chip. E la nostra memoria, ormai lo sappiamo, è molto più fallace di quanto ci piaccia pensare. La memoria del chip, invece, è infallibile. E per questo alcuni di quei chip sono oggetto delle mire di tanti, danno vita a oscuri desideri, confondono il confine tra onestà e potere, tra morale, desiderio di giustizia e voglia di vendetta. Un montatore sa molte cose, troppe. Un montatore il cui profondo senso morale lo spinge a una lealtà senza compromessi, anche per scontare le proprie paure del passato e del presente, è doppiamente pericoloso.

Ha un sound particolare questo film, spesso è come se chi parla lo facesse in una stanza vuota, con un curioso effetto per cui le voci appaiono al tempo stesso estremamente nitide e chiare, e un poco rimbombanti, non è precisamente un’eco ma quasi un’aspettativa di eco, mi verrebbe da dire.

E’ un film profondamente diverso da tutti quelli che ho visto in vita mia. E Alan è la conferma di quella capacità incredibile che Robin aveva: trasformarsi continuamente, non essere mai uguale e restare sempre se stesso. Sono suoi gli sguardi, sono sue le emozioni, lui è così vicino da arrivare a toccarlo, il suo protagonista. Ma senza esserne inghiottito, mai. Mai personaggio, sempre persona, sfaccettata, multiforme, talvolta difficilmente afferrabile, meravigliosamente umana.

Mi piace, di questo film, il fatto che mi abbia suscitato così tante domande. La memoria è un tema affascinante, e questo film l’affronta secondo me con la giusta prospettiva: chiedendo, senza rispondere. Spingendo a continuare a cercare una propria verità, nella consapevolezza di non averla trovata. E non tralasciando l’emozione, che della verità è cancello, confine, mezzo; e soprattutto, la sua parte più bella e irrinunciabile.

Questo dialogo tra Alam e Fletcher (Jim Caviezel, uno dei ‘contestatori’) è molto bello secondo me.

Fletcher          Tell me something. Why is your name the first on the list for cutting scumbags and lowlifes?

Alan                    Because I forgive people long after they could be punished for their sins.
Fletcher              I know what you do. Why do you do it?
Alan            Do you know what a sin eater is? It’s part of an ancient tradition. When someone would die, they would call for a sin eater. Sin eaters were social outcasts, marginals. They would lay out the body put bread and salt on the chest, coins upon the eyes. The sin eater would eat the bread and salt, take the coins as payment.
By doing this, the eater absorbed the sins of the deceased, cleansing their soul and allowing them safe passage into the afterlife. That was their job.
Fletcher              And what about the sin eater who bears the burden of all those wrongs?
Alan                    Are you worried about my soul, Fletcher?

/

Fletcher        Come ti spieghi il fatto che tu sia il montatore preferito da delinquenti e farabutti?
Alan                   Perché io perdono le persone solo quando non possono più essere punite.
Fletcher             Io so che cosa fai. Non capisco il perché.
Alan              Sai chi era il “mangia-peccati”? Vecchie tradizioni. Lo chiamavano in occasione di un decesso. Era un escluso dalla società, un emarginato. Stendevano il cadavere, gli mettevano pane e sale sul torace, e delle monete sugli occhi. Lui mangiava il pane e il sale e si teneva i soldi come pagamento. Facendo questo, assorbiva tutti i peccati del defunto, tirando a lucido la sua anima in vista del passaggio nell’Aldilà. Era questo il suo compito.
Fletcher             Il “mangia-peccati” sopporta il peso degli orrori dell’umanità.
Alan                  Ti preoccupi per la mia anima, Fletcher?

LA LETTRICE DELLA DOMENICA – Mi sono perso a Genova

Lo sapevo che questo era un libro bellissimo. Lo sapevo che l’avrei amato dalla prima all’ultima riga. Lo sapevo perché avevo letto altri due libri di Maggiani e so che scrive alla maniera che piace a me, una prosa che è fatta di emozioni che scorrono, ogni parola curata con amore, studiata con passione per condividere parti di sé profonde e importanti e farlo con quella naturalezza che è resa possibile solo da lunga pratica e lunghe ore trascorse a occuparsi della scrittura con la pazienza di un amanuense.

Lo sapevo, e infatti l’ho acchiappato subito in libreria, anzi, ho lasciato che mi acchiappasse. E poi però l’ho riposto lì, in uno dei ripiani alti dello scaffale dove tengo la letteratura italiana, non perché la voglia irraggiungibile, ci arrivo facilmente se voglio, basta una semplice scala e con quell’aggeggio ho una certa dimestichezza. Là ci sono libri ancora da leggere me anche molti che ho letto e riletto e che rileggo ancora. Insomma, sapete come si dice, per ogni libro deve arrivare il tempo giusto. Non è detto che dopo essersi lasciati prendere al momento dell’acquisto, poi arrivi immediatamente il momento della lettura. Possono passare giorni, mesi, o come in questo caso, persino anni. Può capitare che ti torni in testa proprio quel volume e sia come un colpo di fulmine a scoppio ritardato, l’improvvisa ri-esplosione di un amore, oppure a un certo punto cominci a vagare per i ripiani, senza meta, in maniera un po’ svagata e poi… taac! Eccolo, è lui! Era quello che in realtà stavo cercando senza saperlo.

Così mi è successo con questo libro, il libro giusto per il mio spirito in questo momento, riposare la mente con la bellezza, ritrovare il piacere di leggere un libro che non è un romanzo, non è una raccolta di racconti, non è un saggio né una biografia. Una guida. Sì, ma naturalmente una guida molto particolare. Guida scritta girovagando per ritrovare nella città reale anche (ma non solo) quella sognata, ricordata e ricostruita giorno per giorno attraverso i sentieri che si percorrono via via, dove la nostalgia non diventa mai rimpianto per una inesistente epoca d’oro, ma mescolanza di ricordi e presente, il passato rivissuto attraverso il nuovo, perché il nuovo non cancella, modifica, aggiunge ma è accolto dall’antico e lo accoglie in una convivenza forse difficile ma certamente possibile e anche, direi, fertile.

Con Genova ho un legame particolare, non è un segreto. Ci vivo, ci sono nata, ma non è solo questo. Anzi, non è questo per nulla. Sono convinta che in un certo senso si nasca in un luogo per caso. Ci sono molti luoghi dove mi sarei fermata e che avrei potuto chiamare casa. Luoghi dove mi fermerei anche adesso, e ancora, ne sono certa, li chiamerei casa. Ma Genova mi sorprende sempre, quando la guardo con i miei occhi e ancora più, certo, quando la guardo con occhi di altri.

Ai margini dei miei sogni so che esistono vaste distese indecifrabili, indistinte nella penombra, e nutro seri dubbi  che io possa riempire quelle plaghe nel non molto tempo che mi resta ancora per sognare. Finirò prima io della mia città, e questo è ciò che deve essere: come ho potuto constatare nei molti giorni e anni di veglia che ho abitato nella città, Genova è più grande di tutto quello che potrò mai vedere di li, oltre che di tutti i sogni che io abbia potuto sognare. […]

/

E anche se ero un bambino lercio e svagato, capivo, ero parte, possedevo ciò che dalle zappe di quelle donne contorte di artrite, gobbe sui solchi, sgorgava come un gesto matematico divino. Così vedevo quanta bellezza c’era nel filare di vigna di vermentino posto al confine degli orti per addolcire l’orizzonte. Nell’arco morbido della potatura che mio nonno eseguiva dopo il tramonto con gli occhi lacrimosi di cataratta. E vedevo tutto il resto che era fatto per gratuita e necessaria bellezza. Perché ci fossero un ordine e una grazia nel lavoro, in quella vita senza giustizia.

E di questo ho imparato ad aver fame, e questo cerco. Dappertutto. Per consolazione lungo la strada, per riposare quando mi fermo. Per stabilire dove sarà la mia casa, per non perdermi quando ne esco e quando intendo tornare.

O per perdermi invece, ma di quella meravigliosa perdizione che è la vertigine dell’appartenere. Quando i tuoi occhi incontrano la bellezza e smettono di guardarla e cominciano a sorbirla. Quando è il tuo corpo che sente la bellezza. E tu sei abitatore della meraviglia, e la meraviglia ti abita. Fosse anche solo il triplo tornante della crosa della Madonnetta. L’elica di pietra serena e mattone e porfido che trasfigura la salita in Ascensione. E il suo movimento perfetto ti spinge tutto quanto sei verso il cielo; il cielo è indaco di tramontana. E il bordo della crosa è fiorito di camomilla selvatica, e l’ombra sul muro a secco è merlettata dalle fronde di edera. Odora l’edera, la camomilla, la pietra serena e persino il cielo. In un giardino oltre il muro delle edere un merlo chiama, risponde il soffio di un balzo. Uno spirito scompiglia i rami alti di un ulivo, le foglie rovesciano l’argento sull’indaco. E tutto questo ti porta in un altrove, dall’altra parte della fatica, sull’orlo arrotondato della coscienza. Tutta la tua stanchezza di uomo che ha valicato molti confini e arrancato su molte salite e smottato su molte discese per essere lì in quel momento, è presa in possesso dagli esserini dell’universo invisibile che senti salire su dai piedi fino ai capelli. Uno per uno, piedi e capelli. Intrisi di un vino spillato a da un niente che ti dà il capogiro. E ti commuovi perché gli esserini ti sono entrati fin nelle budella e lì hanno depositato particelle di bellezza. Che senti tra le mani e te la spalmi sugli occhi, ti ci frizioni le orecchie. Vedi intorno fino all’orizzonte di San Benigno e oltre, fino alla diga, e oltre ancora, fino alla striscia di Pra’, e forse fino al Monviso, l’ordine perfetto del creato nelle mani buone degli uomini. Tu ne sei una parte né più né meno dei ciottoli sulla corsa, delle edere, delle ombre cremisi sulla malta rosata tra le pietre della spalletta. Sei un rumore silenzioso. resteresti lì in eterno, perché lì ora hai eletto la tua casa, eretto il tuo rtparo.

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Che Genova non è mai una cosa sola. Ma sempre due cose assieme, o tre, o quattro. Sempre, in ogni suo luogo, circostanza e anima.

SABATOBLOGGER 25. I blog che seguo

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La bionda prof: ovviamente questo è il sito di una prof (al secolo Elisabetta Belotti); una prof bionda, chiaro; che è comunque anche moglie e mamma e molto interessata al mondo femminile. Ne scrive, consiglia storie “dalla parte delle bambine”(il che mi riporta a una delle letture che per fortuna ho fatto da ragazzina, appunto quel libro, pietra miliare delle fanciulle un po’ insicure ma con un bello strato ribelle nascosto dietro la timidezza, e mi chiedo se..). Principesse non conformiste e anti-principesse. Quando parla di altre cose, in genere pur sempre libri, ma libri che raccontano di altro, per esempio di uomini, magari sportivi, mi pare prediliga sempre comunque quelli un po’ fuori dalle righe e dagli schemi, come McEnroe. Non è invece principessa né anti-principessa Rosa Parks, ma una donna che ha fatto la storia, per aver fatto la cosa giusta, nel momento giusto e nel luogo giusto. E visto che siamo (di nuovo) in estate, potranno far comodo queste letture consigliate per i bambini, anche se si riferiscono all’anno scorso, ma questi libri sono dei sempreverdi che vanno comunque bene in ogni tempo.

Un mondo a colori (Arcobaleno 66): qui abbiamo un blogger che parla di vita quotidiana, della sua Leonessa e della ormai-quasi-non-più-bambina Patitù, delle gioie e delle perdite, della scuola, delle malattie di persone care da affrontare, di distanze materiali e vicinanze di cuore, di fede vera vissuta e di false fedi proclamate opportunisticamente, di montagna e naturalmente di libri (senza i quali io non sarei probabilmente approdata qui). Tutto con molta passione e molta intensità. Qui per esempio una bella pagina di vita familiare, condivisione di una bella gita in famiglia per celebrare nel migliore dei modi la festa del papà, pranzo in una trattoria ligure con titolare “molto simpatico e cortese” (tanto per sfatare qualche mito sui miei conterranei) gelato e mare e le insenature della Riviera… cosa chiedere di più in effetti? Per chiudere con i libri, vi propongo questa recensione di Risposte nella polvere di Rosamund Lehmann, romanzo che non conosco ma sembra molto interessante.

Frank Iodice ha fatto il giornalista prima di partire per cercare altrove nuovi spunti per le sue storie. Stati Uniti, Francia, di nuovo Stati Uniti. Se non ho capito male, uno dei suoi riferimenti letterari è Jack London e su questo già siamo in sintonia.Scrive tra l’altro articoli di attualità, anche se io negli ultimi tempi soprattutto preferisco trattare e leggere del presente attraverso quello che non ha tempo e quindi vale in ogni tempo, come appunto la letteratura. Mi pare che dall’universale si possa arrivare al particolare, mentre non sino sicura del contrario. Mi ha colpito comunque il modo in cui ha raccontato dell’assassinio di Jo Cox, specie alla luce di altri post sul tema immigrazione/rifugiati, su cui mi pare particolarmente sensibile. I racconti di Frank li trovo in generale molto belli. Ho scelto Gli appunti necessari, che sembra tratto da un giallo o un romanzo/racconto di spionaggio ma mi piace in particolare per la descrizione del protagonista e il “gioco” sul nome, il nome ha sempre in sé qualcosa di affascinante, è parte di noi, ma forse saremmo gli stessi anche con un nome diverso, o se comunque dimenticassimo il nostro; o forse no. Interessante infine questa recensione che è anche una possibile lettura del concetto di miracolo e del suo rapporto con il quotidiano.

L’amore è la distanza di dieci giorni: Tommaso Occhiogrosso scrive da tempo, si occupa di teatro, ha studiato e letto seriamente e si vede. Le sue sono storie, hanno in un certo senso un inizio e una fine, ma più che altro sono ritratti di persone, momenti e sensazioni, riprodotti con efficacia da pittore e da profondo osservatore. Ricordavo Un chilometro di devozione e fatica, un racconto che mi era piaciuto molto quando lo avevo letto la prima volta e mi è ri-piaciuto molto adesso, una sorta di presa di coscienza di sé attraverso una breve gita in bicicletta sotto la pioggia, un mettersi alla prova per non sfigurare non tanto di fronte agli altri, quanto di fronte a sé, appunto, dove le sensazioni dell’acqua che scende con forza si “concretizzano” e prendono corpo attraverso il disegno delle gocce di fango che diventa quasi un’istantanea di un momento che già si sa che diventerà uno di quelli che non si dimenticano nella storia della propria vita. Anche questa Il tempo non ha colpe l’ho molto apprezzata, è una storia di battiti, rintocchi, ritmi, progetti, tempo perso e ritrovato e nebbia che rivela e nasconde. Infine Il maglione calmo e assurdo, sul passato, gli errori che abbiamo fatto e che ripeteremo, scelte compiute che oggi non rifaremmo, ma forse ne faremmo altre peggiori, o forse, se le abbiamo fatte, c’era una ragione comunque, e quella ragione, giusta o sbagliata, era la nostra.

Ritagli letterari è quello che dice di essere, un blog di ritagli letterari, citazioni che diventano frammenti, di vita, di pensieri, di emozioni, di riflessioni, di idee e di contrasti. Ne viene fuori, mi pare, una certa completezza di visione della vita e delle persone, pur se è una visione che mi pare ispirata da una sorta di pessimismo cosmico. Da quella di Sciascia sulle categorie degli uomini, a quelle di McInerney, David Foster Wallace, Bukowsky, quasi tutte insistono sull’insulsaggine, la superficialità, l’insignificanza e la vacuità dell’esperienza umana e di ciò che l’umanità è, alla stessa vita viene negata ogni bellezza se non, come in  questa citazione – peraltro a mio parere di grande fascino – dal romanzo Il cardellino di Dona Tartt, in una sorta di spazio che non è vita, ma dove è situata l’arte. Per cui l’arte diventa un modo comunque di restare ma chiamandosi anche fuori, di osservare dall’esterno, un luogo anche magari molto vicino, confinante, ma pur sempre “altro”. Ci sono tuttavia delle eccezioni, come questa, almeno, io la leggo come un’eccezione e amo moltissimo le eccezioni, per questo l’ho scelta.

Un folletto in abito da sera (Lady Paperina). Del Folletto ho sempre apprezzato molto il nome (quello del blog e il “nome d’arte” dell’autrice) e il motto, perché fare origami con le parole per decorare le pagine mi sembra una definizione molto azzeccata di quello che fa chiunque scriva, per amore o per mestiere, per hobby o per passione o per necessità. Capisco molto bene quell’avidità di bambina nello sfogliare qualunque cosa, così come capisco la magia di scoprire che mettendo insieme vocali e consonanti si possono anche “creare” le proprie storie. Alcune delle sue frasi sono aforismi fulminanti e colgono molto senso in poche parole (anche se lei preferisce chiamarli “follettismi”). Uno per esempio, secondo me, è questo, Calzini spaiati; anche I segni della vita non è affatto male. Ho scelto poi una favola breve,Meraviglia! in realtà è anche questa poco più che un aforisma ma l’ho particolarmente apprezzata, forse perché sono una fan accanita del Cappellaio Matto e dello Stregatto! 🙂

Lilasmile Lila ama ridere e sorridere, l’arcobaleno, la luna, la rugiada e gli animali, e questo accostamento insolito non mi dispiace affatto. Anche se sulla semplicità non concordiamo (non credo di potermi definire una persona che ama la semplicità), per il resto abbiamo vari punti in comune. Compreso il romanticismo, anche se non ho amato molto Titanic, ma l’idea di ballare (anche da soli in casa, perché no? Anch’io sono abbastanza svitata da farlo)  e bersi una birra ascoltando musica irlandese mi sconfinfera parecchio devo dire. Altro pezzo musicale che sembra rispecchiare molto l’anima sensibile e passionale di Lila è Divenire di Ludovico Einaudi che piace molto anche a me, davvero un brano molto intenso. Chiudo con questa Attimi immortali, una composizione (di Pablo de Sarasate, apprendo sempre dal blog) creata per il ballo del flamenco ed effettivamente mi pare esprimere perfettamente quell’atmosfera sensuale, malinconica e al tempo stesso scatenata che il flamenco trasmette. E anche quella sensazione di attimi che racchiudono la felicità di una vita intera direi che sì, la capisco molto bene. La musica poi secondo me ha una capacità particolare di regalarci quei momenti.

Come sempre buon viaggio tra i blog, a sabato prossimo!

IL BOSCO – PARTE IV – Capitolo VII – continua

Gianna li vide rientrare, presa da sentimenti contrastanti. Vide subito che la burrasca si era calmata. Non era particolarmente osservatrice, ma non era difficile accorgersene, avevano cambiato completamente espressione, tutti e due. Sembravano persino più giovani. Elisa aveva perso la ruga di concentrazione sulla fronte, di quando metteva tutte le sue forze nel convincersi che stava benissimo anche senza di lui, e Andrea sorrideva. Il sorriso di Andrea era sempre stato una cosa che parlava da sola.
Era meglio così? Sarebbe stato meglio che continuassero a non vedersi, e forse prima o poi sarebbero riusciti comunque a venirne fuori? Chi poteva saperlo? Ma Gianna aveva senso pratico, e pensava che se entrambi, nello stesso momento, avevano deciso di rivedersi, in qualche modo avrebbero fatto, se non fosse stato a casa sua avrebbero trovato comunque una strada. D’accordo, forse sarebbero riusciti, presto o tardi, a superare la rabbia, l’amarezza, il dolore, e tirare avanti. Ma perché?

Elisa aveva pensato che non sarebbe riuscita nemmeno a sentire il gusto del cibo, e invece lo sentiva benissimo, anche più del solito. Non aveva mai capito la connessione tra cibo ed erotismo, adesso la capiva. I profumi e i sapori dei piatti liguri, piatti della tradizione marinara e contadina, non certo raffinati, ma gustosissimi, a cui Gianna si dedicava con tutta la sua anima mediterranea, le provocavano un piacere decisamente sensuale. Andrea non faceva assolutamente niente per nascondere il fatto che non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. Mangiava guardandola, quasi che quello che stava assaporando fosse solo un anticipo di quello che sarebbe venuto dopo. Non aveva mai creduto che si potesse eccitare una persona in quel modo, ma era possibile, sì. Non si accorse nemmeno che partecipava anche lei a quel gioco, altrettanto incapace di filtrare le sue emozioni, fino a che anche portare un’oliva taggiasca alle labbra diventava un gesto malizioso.
Non fu tempo sprecato, non solo la concessione alle convenzioni dell’ospitalità, in attesa di potersi finalmente districare e scappare via. C’era, è innegabile, un’aspettativa un po’ impaziente. Non è certo facile continuare a far finta di niente mentre un fremito sinuoso e liquido rifluisce in onde di calore che arrivano anche alle mani, al viso, al collo, dove tutti possono vederle. Ma quegli istanti rubati all’appagamento del loro desiderio erano istanti regalati all’attesa che dilatava quel desiderio, annullando ogni altra cosa. Incoscienza, follia. Forse.

Il tempo di un caffè, due chiacchiere con gli ospiti, l’ultimo goffo tentativo di fingere di essere ancora sulla stessa terra dove c’erano anche gli altri. Ma Gianna sapeva come stavano le cose. Guardò Andrea, gli fece segnali con gli occhi e con le mani, vai via, portala via, e non preoccuparti del resto. Chi vuole capire, capirà.
Così fuggirono via, nella macchina di lui, un’altra Ford, ma non quella che aveva comprato da ragazzo e che adesso sarebbe stata comunque in età per andare dignitosamente in pensione. Blu. Non eccessivamente curata, se non dove era necessario. In ordine, confortevole. Andrea non si inebriava con la velocità, ma si vedeva che gli piaceva guidare. Aveva una mano sicura sul volante, come… mentre gli guardava le mani, i pensieri di Elisa andavano per conto loro. Rimasero stranamente silenziosi, per tutto il viaggio, di tanto in tanto lui la guardava. Si sorridevano.
Quando lui ruppe il silenzio, non lo fece con una frase particolarmente evocativa.
– Il parcheggio è sempre un problema – disse.
– Cammineremo – rispose Elisa, e pensò a quante volte frasi così banali nascono da pensieri troppo forti per poterli esprimere.
Ma trovarono posto abbastanza vicino, persino troppo, per Elisa, che avrebbe quasi voluto prolungare ancora un po’ quella tortura così dolce, di desiderarlo tanto, sapendo che sarebbe stata un’attesa breve.
Di nuovo quella sensazione di familiare, casa sua gli somigliava così tanto che era come se lei ci avesse abitato con lui, come se la conoscesse da quando conosceva lui.
Si sfilò la giacca, i guanti, e rimase con il vestito che aveva indossato per la cena da Gianna, quel vestito che aveva suscitato in lui quel misto di gelosia, di orgoglio e di desiderio. Adesso voleva solo toglierglielo. Le fasciava il corpo, lasciando intravedere la curva dei seni, e le lasciava scoperte le braccia e le spalle. Aveva lunghe braccia snelle, e mani dalle dita lunghe, belle mani da pianista.
Ma fu lei a prendere l’iniziativa, questa volta. Superando ogni timidezza, ogni vergogna, per la voglia di scoprire il corpo di lui come lui aveva fatto col suo, ricordando e usando gli stessi gesti di lui, ma a modo suo, per restituirgli lo stesso incantato stupore che lui le aveva fatto provare, l’altra volta. Le piaceva toccarlo, le piaceva spogliarlo. Non lo aveva mai fatto, lasciando sempre che fosse Matteo a decidere i tempi e i modi del loro amore. Lo guardò, mentre gli sfilava il maglione, e Andrea trattenne il respiro. Anche il maglione era blu. Sentì l’odore della lana, misto con il detersivo da bucato e il fumo che gli era rimasto addosso da casa di Gianna. Poi l’odore della sua pelle, che non avrebbe saputo descrivere, ma le piaceva. Un profumo fresco e un po’ aspro, che le ricordava la resina degli alberi di un bosco.
Le sue dita sfiorarono le irregolarità del viso di lui, certi punti ruvidi e scabri della pelle, i rilievi e gli infossamenti delle spalle, le callosità e le parti più morbide. Come aveva mai potuto pensare di rimpiangere il fatto che lui non fosse più un ragazzo, quando proprio questo glielo rendeva infinitamente più caro? I segni che la vita gli aveva lasciato le parvero segni d’amore, come se ogni imperfezione fosse il risultato di una storia, ogni ruga un piccolo miracolo della sua capacità di arrendersi al tempo, che forse era l’unico modo di vincerlo. Allora seppe che si sarebbe aperta a lui come a uno straniero, accogliendo la ferita dell’incontro, l’inquietudine della differenza, le sgradevolezze e il lenimento delle somiglianze, amandolo completamente, senza confini, perché lui l’aveva incontrata e riconosciuta e non era tornato indietro. Un pensiero l’attraversò come un lampo. La felicità vive dell’imperfezione. Non era importante, adesso, eppure lo era. Il suo corpo reclamò spazio, scacciò la mente nei suoi recessi. Lei udì un suono che non aveva mai sentito ma che riconosceva, una musica che veniva dalla parte più profonda di lei.
– Non fermarti – mormorò lui – e la sua voce rauca, quell’accenno di urgenza, tornarono ad eccitarla ancora di più. Dopo averlo spogliato, si sfilò l’abito. Non sapeva bene i gesti, magari era un po’ goffa, ma non le importava niente, lui continuava a guardarla, e lo vedeva dai suoi occhi che non la trovava goffa. Le piaceva quando la guardava così, come se nei suoi occhi l’acqua del mare si mescolasse con il fuoco. Lasciò che la lentezza dei suoi gesti facesse divampare quel fuoco, oltre il punto di non ritorno. Solo dopo lasciò che lui la toccasse, lasciò che le carezze di lui sciogliessero il suo corpo come se fosse stato fatto di neve bollente, lasciò che lui le insegnasse cose che non aveva mai saputo esistessero. E poi rimase così, le gambe fuori dal letto selvaggiamente disfatto, la testa appoggiata al braccio, brividi di freddo che si mescolavano ai brividi di piacere, completamente, inesorabilmente felice.

UN LEONE A COLAZIONE – Storie intorno all’adozione

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Ieri c’è stata, come direbbe Montalbano, una bella sciarratina, una lite coi fiocchi, tema: la fiducia. Argh. Noi (papà e mamma) convinti nella maniera più assoluta che il nostro Bertucciapiccola avesse combinato una marachella e lui, che aveva avuto una giornataccia, ha reagito male. Prima i conti con un razzismo neanche troppo velato che ogni tanto salta fuori nei momenti meno opportuni (non che ci siano momenti opportuni); e poi questa “accusa” che lo ha spinto a una reazione per noi “eccessiva”, ma frutto evidentemente di un sovraccarico di emozioni. E qui entrano in gioco un sacco di cose, almeno due particolarmente importanti: la prima, appunto, è la fiducia, che è un tasto delicatissimo, per me fondamentale e di una complessità di cui ci si rende conto quando ci si deve avere a che fare in concreto. Perché gli adolescenti combinano cose di cui poi si vergognano, hanno segreti che non vogliono raccontare, dicono piccole bugie per le ragioni più impensate e a volte senza ragione, o almeno così sembra, e poi però stanno malissimo se sentono il venir meno di quella fiducia. La fiducia, dico io, bisogna conquistarsela e però in certi casi, quando è stata tradita, bisogna anche che qualcuno ti aiuti a costruirla perché solo così, poi, puoi imparare a non tradirla a tua volta. E quando si tratta di credere o non credere, verità o non verità, si cammina sempre un po’ sulle uova.

La seconda cosa che a me personalmente mette in difficoltà è la gestione delle crisi, che ci stanno tutte, e ne parliamo per fortuna, però c’è sempre il momento che ti trovi lì e le cose vanno in crescendo, si crea una spirale di tensione che non sempre si riesce a interrompere al momento giusto. E forse è in quello che consiste l’autorevolezza. Non l’urlo, non il pretendere un rispetto formale dovuto al ruolo, ma la capacità di contenere, smorzare, tranquillizzare, stemperare le situazioni. Senza giustificare, ma aspettando di essere più calmi tutti per parlarne con altri toni. Tante volte, sdrammatizzare rende più credibili e non il contrario, almeno, questo vedo che succede nei rapporti con la Bertuccia. Non è facile perché intervengono fattori come il nostro stesso nervosismo magari dovuto alle nostre, di giornatacce, la stanchezza, a volte però anche l’orgoglio, un bisogno di essere “riconosciuti” e ubbiditi che raramente ha effetti positivi (forse mai). Leggerezza, parola magica, apparentemente facile, in realtà non tanto. Ma ha tanti di quegli effetti positivi, che vale la pena comunque continuare testardamente a cercare di applicarla…

Di vento, bruchi, amarene e imenotteri

Ieri sera c’era vento. C’è spesso qui, la sera. Un vento freddo freddo, secco secco, più da autunno che da estate, benché da oggi l’estate sia ufficialmente iniziata. Un vento burbero e scorbutico, che però allontana la nebbia e la pioggia, afferra le nuvole e le trascina con sé, le plasma e le modella in forme curiose, le ricama e gioca con loro, come un vecchio brontolone e dispettoso, che tira e sbuffa per nascondere la voglia di divertirsi e di fare qualche burla un po’ infantile.

Non mi stupisce che lo si possa pensare vivo e dotato di anima. Talvolta sa essere gentile, sospingere le vele nella giusta direzione, trasportare dolcemente i semi là dove possono trovare terra fertile; poi, d’improvviso viene afferrato da un ghiribizzo di monello, scompiglia le carte, soffia da ogni parte per confondere le idee e non far capire da dove viene, cambia di posto a ogni cosa. E tocca sperare che non venga preso da una di quelle furie, quando sradica, spezza e ribalta ogni ostacolo sul suo cammino. Ma qui non accade quasi mai.

Stamattina mentre scrivo il vento è poco più che una brezza e gli ho affidato la riproduzione dei papaveri e chissà, forse anche di altri fiori, quando crei un giardino ci sono sempre delle sorprese. Piante che pensi dureranno solo una stagione e invece poi rispuntano, apparentemente dal nulla, l’anno dopo, magari in un luogo diverso da quello dove le avevi collocate in origine. Il giardino è un mio antico amore, ripreso dopo tanti anni quasi per caso, fa parte del prendersi cura, e mentre contemplo i suoi colori penso che mi piacerebbe che tu lo vedessi, che ho dovuto anch’io riprendermi dopo essere appassita per un po’, e uno dei segni di questa mia nuova rinascita, insieme alla scrittura, è stato ricominciare ad occuparmi del giardino, rivedere nei suoi colori un pezzo del paradiso che tu immaginavi. Fiori, musica, persone, dipinti, libri. Il tuo cielo, come la tua terra, somigliano ai miei tanto da far male, ma di quel male che guarisce le ferite e riporta l’anima al suo posto.
Fotografo il cespuglio di lavanda, letteralmente invaso da insetti e farfalle. Un brulichìo di vespe e calabroni che si fanno i fatti loro, mangiando a sazietà e impollinando le nostre piante e che io non ho nessuna ragione di disturbare. Loro non disturbano, del resto, e se mi vedono non si spostano affatto, continuano imperterriti nella loro attività come se non ci fossi. Le rare volte che sono stata punta è stato in città, nell’aprire un portone, o in vacanza, bevendo da una fontanella, ignara in entrambi i casi della vespa che prendeva il fresco sul lato in ombra della maniglia e, rispettivamente, sul rubinetto inumidito e seminascosto sotto le fronde degli alberi. Qui, sembra quasi che in qualche modo gli insetti si siano trasmessi l’informazione che c’è cibo in abbondanza e niente da temere. Se chiunque mi avesse detto, ancora pochissimi anni fa, che mi sarei seduta tranquilla a leggere senza curarmi minimamente del brusio di imenotteri dotati di pungiglione, e anzi, trovandolo rilassante, lo avrei dato per impazzito senza rimedio.
Non t’innamoreresti forse di tutto questo? Non andresti a cercare un bruco in particolare, per fartelo amico (sono certa che ricordi Bob), tremare alla sua morte apparente e gioire poi rivedendolo trasformato dalla metamorfosi in un essere ancora più spettacolare e per giunta con le ali, gli occhi illuminati da quella scintilla di stupore e tenerezza che ancora oggi mi commuove? Non t’incanteresti seguendo di giorno in giorno il lento aprirsi di un fiore?

Ancora doni, ancora una rinascita, e nuove passioni di cui ti sono debitrice, la poesia, il giardino, ma ci sono ancora tante, troppe cose di te che non so. Tante cose da imparare sui tuoi gusti: la musica, i libri, i colori, la cucina, i frutti… oggi ho fatto lo sciroppo di amarene e pensavo, chissà se esistono, in California, se esistevano, nella tua tenuta se le hai mai mangiate e se ti piacevano. Mi sembra difficile non amarle, in un modo o nell’altro. Appena staccate dall’albero, magari infilandosi tra le fronde e rivivendo le avventurose arrampicate di ragazzi, con meno incoscienza forse, ma con altrettanto gusto, e lasciando che la ritrovata monelleria lasci tracce di rosso tra il naso e le labbra. Oppure in sciroppo, appunto, o in marmellata.

La cosa che mi piace di più è che anche immerse nello zucchero, non perdono mai quel caratteristico sapore asprigno e profumato – non mi viene parola migliore per definirlo – che ti resta in bocca, in qualunque modo le prepari. Che poi, si potrebbe dirla anche al contrario, perché anche quando le assaggi senza nessun trattamento, spiccandole dal picciolo aspre come sono, sulla lingua rimane un delizioso sentore di dolcezza. Un tratto, questo, che si può usare per non pochi paragoni. La vita, l’amore, le emozioni in genere, magari una persona, potrei associarlo a te perché associo a te qualunque cosa, ma non siamo forse tutti così? Un po’ di selvatico nella dolcezza, un po’ di dolce nel selvatico, lasciamo emergere di volta in volta la parte più aspra o quella più morbida, ma un poco del lato opposto c’è sempre, più nascosto, pronto a venir fuori al momento giusto.

Stasera, poi, il cielo è così, cielo di mercurio ragazzino, cielo che scappa e si fa inseguire, oro liquido e ombre, e con questo cielo, tu…

IL BOSCO – PARTE IV – Capitolo VII – continua

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Elisa si addentrò nei carruggi che aveva ormai imparato a conoscere bene non solo perché Gianna ci abitava, ma anche per le innumerevoli passeggiate che avevano fatto insieme, per fare shopping o semplicemente per girare. Mica puoi abitare a Genova e fermarti alla soglia dei vicoli, diceva Gianna. Quello che era certo era che lei, Gianna, ci si sentiva perfettamente a suo agio, la sua casa era aperta a tutti, italiani e non, purché stessero alle sue regole, e se a qualcuno non andava bene, mica era un obbligo frequentarla. Nessuno l’aveva mai scippata, ma, come ogni tanto raccontava, una sua cugina era stata scippata in piena Albaro, zona signorile, alle due del pomeriggio. Ci sono persone, diceva, che trovano sempre mille motivi di infelicità e neanche uno di gioia. Li chiamava i baciati dalla cattiva sorte, quelli che hanno come unico hobby la compilazione di lunghi elenchi di disgrazie, trovando in ogni cosa soltanto motivi di mugugnare e lamentarsi. Lei non aveva nessuna intenzione di farsi suggestionare dagli spettri agitati da qualche politico non in perfetta buona fede, e da qualche giornalista non precisamente indipendente, solo perché la gwerx spaventata si governa meglio. La sua bellissima casa era in uno di quei minuscoli vicoletti che si dipanavano come una ragnatela, un labirinto, una rete di sottili rivoli grigi delimitati dagli alti muri delle case addossate l’una all’altra, strette nell’antica difesa – c’era dell’ironia in questo – contro i Turchi, i Mori, gli Arabi, insomma.
Spesso a febbraio Genova è fredda, più fredda che a dicembre o a gennaio, quasi che l’inverno in quei suoi ultimi guizzi volesse mostrare la sua potenza, gelando i corpi e le case, da cui il sole della primavera avrebbe impiegato più tempo a sciogliere il ghiaccio.
Il profumo della farinata e delle torte di una vicina friggitoria si mischiava con odori molto meno gradevoli. Piovigginava, e l’umido le entrava nelle ossa. Ma si sentiva il cuore leggero. Tutta la pioggia, il freddo, la puzza e l’umidità del mondo non avrebbero potuto, in quel momento, scalfirla.

A casa di Gianna il profumo era anche migliore di quello della friggitoria. Basilico fresco, minestrone, acciughe, frisceû di baccalà, torta di pinoli, tutto un miscuglio di odori che solleticavano le narici e facevano venire appetito.
Andrea non era ancora arrivato. Con tutta la buona volontà, non avrebbe potuto sostituirlo neanche con il famoso bagnon di acciughe di Gianna.
Gianna era ancora in grembiule, stava preparando una salsina dolce di sua invenzione, una sorta di gelatina di frutta. Un altro incantevole profumo.
– Ma quante cose hai preparato? – Le chiese Elisa, soffermandosi ammirata a guardare il bendidio sull’immensa tavolata della cucina.
– Beh – rispose lei, facendole l’occhiolino – gli uomini si prendono per la gola, anche se in questo caso per interposta persona. Spero che ci sarà qualcosa da festeggiare, stasera.
Elisa si sentì rincuorata. Almeno lui non aveva telefonato all’ultimo momento per dire che purtroppo non poteva proprio venire. A lei era venuta l’influenza, il giorno dopo la telefonata di Gianna. Luca si prendeva tutto quello che c’era in giro, e certo non poteva risparmiarsi l’influenza.
“Babba, secoddo te l’idfluenza viede perché i microbi haddo freddo e si scaldado dedtro di doi?” Era stata quella la domanda da cento milioni di dollari, questa volta. Cosa avrebbe potuto dire? Chissà, forse. L’unica cosa che sapeva era che si trasmetteva facilmente. Bastava che passasse prima di sabato… per fortuna era passata, grazie anche a un paio di robuste aspirine.
Il campanello continuava a suonare, uno squillo dopo l’altro, a ripetizione. Ci saranno state già sette o otto persone. Quando sarebbe arrivato, lui?
E finalmente, eccolo.
Ma a vederlo, Elisa sentì una fitta al cuore, incontrando lo sguardo freddo che aveva tanto temuto, gli occhi duri che la guardavano senza tregua, taglienti.

Non era quello il modo in cui Andrea avrebbe voluto guardarla. Aveva deciso di volerla vedere, e non era stato certo per mettere ancora più distanza tra loro. Ma adesso che era lì davanti a lui, l’orgoglio era tornato. Non le avrebbe fatto capire quanto aveva sofferto a causa sua. E dietro l’orgoglio la paura, forse, perché anche Andrea aveva paura. Anche lui non sapeva cosa aspettarsi, anche lui cercava, come poteva, di difendersi.
La pioggia adesso scendeva con rabbia, schiocchi di frusta sulla strada, lo sguardo di Elisa corse alla finestra, per non sentire più la durezza altrettanto sferzante degli occhi di lui fissi nei suoi, per ritrovare il coraggio.
Tornò a guardarlo.
– Andrea, io… vorrei parlarti. Per favore. Vuoi venire sulla terrazza con me? – La sua voce suonava così strana, velata, stanca, eppure determinata. Andrea pensò che anche lei doveva aver sofferto molto. La seguì.
La terrazza era chiusa, eppure gli scrosci erano così violenti che qualche goccia arrivava fino a loro, portata dal vento, infiltrandosi tra gli spifferi delle vetrate.
Non c’era nessuno, ma era quello che volevano.
– Voglio… voglio dirti quello che ho sentito in questi mesi, poi puoi farne quello che vuoi, ma devo cercare di spiegarti. Probabilmente è stata la paura, come dicevi tu, ma io credevo che fosse l’unica cosa ragionevole da fare. Continuavo a dirmi, non posso rischiare di far del male ai bambini, non posso mettere in pericolo tutto quello che ho, perché anche se ti amo così tanto, anche se avevi risvegliato una passione così grande… no, anzi, proprio per questo, ho pensato che … che tu avresti potuto portarmi a dimenticare tutto il resto, che sarebbe stata una rovina, un terremoto. L’istinto mi diceva che stavo sbagliando, che con te stavo bene, che quello che sentivo era amore, e l’amore non distrugge. Sapevo, dentro di me, che avresti potuto rendere la mia vita più bella, ma avrei dovuto abbandonarmi, avrei comunque dovuto perdere tutta una vita di certezze. Adesso so che sarei pronta a rischiare ma non so… quello che senti tu.
Elisa lo guardò, fermandosi di botto, come se le fosse impossibile pronunciare anche solo un’altra sillaba, Aveva il viso umido di pioggia, e probabilmente anche di lacrime.
Per un attimo Andrea ebbe la tentazione di lasciarla piangere per un po’. Tutto il dolore che aveva provato a causa sua gli aveva lasciato una vena di crudeltà. Ma si vergognò del pensiero, anche per le cose che lei gli aveva detto, e per come le aveva dette, senza difese, con tutta l’anima sulle labbra. E comunque, anche se avesse voluto non avrebbe potuto. Le sue emozioni erano incontrollabili di fronte a lei, e sapeva di amarla al punto che avrebbe sofferto ancora per lei, e l’avrebbe ancora perdonata.
Alzò una mano a sfiorarle il viso. Non riusciva a toccarla, anche solo un contatto casuale, senza che il desiderio di lei gli scombussolasse tutte le funzioni vitali.
Cosa c’era in lei che ogni volta che la vedeva gliela faceva immaginare distesa nuda su un letto, aspettando solo di far l’amore con lui? Non aveva il fascino distante e irreale di una diva del cinema, i suoi sguardi non erano, di solito, sguardi assassini, almeno non volutamente. Si possono lanciare involontariamente sguardi assassini? E un uomo può seriamente farsi domande di quel genere? Certo, era vero che il modo in cui i suoi occhi si illuminavano quando lo guardava gli era sempre piaciuto, ma… vestiva anche in modo piuttosto sobrio, anche se in un paio di occasioni gli era venuta una tentazione alquanto sciovinisticamente possessiva di chiederle dove diavolo credeva di andare vestita così, e questa era una di quelle. Ma non era la luce nei suoi occhi, e non era il vestito. Tutto quello che voleva, anche adesso, era di stringere quel suo corpo morbido e caldo e far l’amore con lei fino a non poterne più. Ecco, forse era proprio questo, quella sua qualità morbida, rotonda, concava. gli veniva da dire, o forse la parola era “ricettiva”, nel modo in cui si abbandonava senza pudore e senza paura. La paura, semmai, veniva dopo.
Elisa lo guardò, vide tutto questo nei suoi occhi, e stranamente si mise a piangere ancora più forte, ma non stava piangendo, stava ridendo, senza sapere perché. Di felicità, forse. Di sollievo, di tensione che improvvisamente si scioglieva.
– Chissà cosa penseranno lì sotto – disse, quando si fu un po’ calmata, – Non è proprio una giornata da starsene a godersi il fresco sulla terrazza.
– Se sapessi quanto me ne importa di quello che pensano. Per tutto questo tempo volevo solo te, e anche adesso voglio solo te. Possiamo tornare giù, se vuoi, possiamo andare a cena, e se ti fa sentire meglio, posso andarmene prima di te, perché non ci vedano uscire insieme. Basta che dopo vieni a casa mia. Ho immaginato ogni sera di far l’amore con te, e ad ogni sera il desiderio cresceva, e adesso è diventato insopportabile.
Elisa sorrise, abbassò gli occhi. C’era un’ombra di rimprovero, in quella parole, ma era il calore del suo sguardo a farle abbassare gli occhi, adesso.
– Non ha importanza – disse. – Possiamo andare via insieme, non ho più bisogno di nascondere niente. Se non mi nascondo più a me stessa, perché dovrei nascondermi agli altri?

46. House of D.

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Credo che per poter in qualche modo entrare in questo film sia necessario dimenticare per un momento la credibilità e la nuda oggettività dei fatti. Tutto è possibile nella vita – e ancor più in America. Ma non è la verosimiglianza che conta, qui. Se non ci si preoccupa degli eccessi – eccessi di melodramma, eccessi di avvenimenti, eccessi di conseguenze, eccesso di emotività – si può riuscire a mettersi nei panni di un ragazzino tredicenne con troppe cose a cui pensare. Tom (Anton Yelchin) per un verso somiglia a tutti i ragazzi della sua età, fa lo sbruffoncello, e nasconde la tenerezza sotto una scorza a volte strafottente, a volte buffa.

E’ anche diverso, però, per tante cose: perché il padre è morto l’anno prima; perché sua madre (Tea Leoni) è depressa, fuma troppo e prende troppi medicinali; perché il suo miglior amico, Pappass (Robin Williams), è un uomo adulto con la testa e il cuore di un bambino, insieme al quale Tom fa le consegne per conto di una macelleria con un carretto sgangherato. I due sognano di comprare una bicicletta nuova con le mance, che nel frattempo conservano in una scatola sepolta nei pressi di un carcere femminile, una House of Detention, da cui il titolo. Là è rinchiusa Odella (Erykah Badu, sentirla cantare potrebbe anche valere almeno metà del film), che Tom non vede ma con cui finisce per instaurare un dialogo fatto di confidenze che non può fare né a sua madre, né tantomeno a Pappass. Pappass detesta e teme i cambiamenti, e quando Tom ha la sua prima cotta per una coetanea, lui, infuriato, getta tutte le mance accumulate in mare e ruba la bicicletta tanto desiderata, sperando così che tutto resti uguale. Da qui una serie di conseguenze di fronte alle quali Tom, diventato grande troppo presto, in un certo senso smette di crescere, reagisce da bambino, fuggendo.

Trent’anni dopo, a Parigi, si è sposato e ha avuto un figlio, che ha chiamato Odell, e al quale è venuto il momento di raccontare tutta la storia, per poter infine chiudere il cerchio. Tom adulto è interpretato da David Duchovny, che è anche il regista del film.

Lo consiglierei? Nel complesso direi di sì. Non mi pare un film memorabile, però l’ho trovato a tratti denso di tenerezza e coinvolgente, soprattutto nella prima parte. A un certo punto mi è venuto alla mente Il Tempo delle Mele, qualcuno lo ricorderà, è stato per qualche tempo il mito di una generazione; ma non vorrei fosse un riferimento fuorviante perché questo film è in realtà molto diverso, c’è forse una somiglianza nello sguardo commosso rivolto all’adolescenza, al suo veder convivere parti bambine e parti adulte nello stesso corpo e nella stessa testa.

Al passato, però, non si deve guardare con troppa nostalgia, il rimpianto ci fa fermare, ci impedisce di andare oltre. E’ il senso ad esempio dell’episodio biblico citato nel film, della moglie di Lot, diventata in una statua di sale per non essere riuscita a impedirsi di voltarsi indietro. E tuttavia, neanche dimenticare va bene. Per poter crescere, a quel passato bisogna tornare, con occhi nuovi, per farci la pace e poi proseguire. C’è qualcosa di dolce, qualcosa di malinconico e sì, anche qualcosa di gioioso, anche se il pure joy tratto da una recensione citata in copertina è decisamente un altro eccesso.

Robin ha un aspetto insolito ma l’espressività è la sua, non era nuovo, tra l’altro, al ruolo di adulto-bambino, che anzi in passato, in varie altre occasioni e in modi diversi, era sembrato tagliato su misura per lui (penso a Toys, Hook, Jack, Jumanji, Flubber…). Vi dirò che per me è stato quasi un sollievo vedergli di nuovo esplorare, nel film successivo, una parte ancora differente, direi persino inedita per lui, un ruolo a cui mai avrei pensato di accostarlo fino a qualche anno fa. Cioè, fino al momento in cui ho capito che avrebbe potuto essere e anzi è stato accostato praticamente a qualunque ruolo. Ma devo dire, è riuscito comunque a sorprendermi, col personaggio di cui parlerò la prossima volta. A lunedì!