Storie dal giardino – doni di inizio autunno

Nei giorni scorsi ho fatto pratica di danza della pioggia (non odiatemi, per favore!). Purtroppo, non so ballare, e potrei forse aver esagerato un po’, o fatto qualche mossa non proprio precisa, oppure gli dei degli acquazzoni si sono offesi per il fatto che per esercitarmi io abbia usato (tra l’altro), brani di Jovanotti. Sta di fatto che pensavo, come si cambia, con gli anni e le stagioni. La ragazza di città che ero avrebbe condiviso pienamente l’idea che la pioggia fosse “maltempo”; dopo tre giorni avrebbe dichiarato “che strazio, ma non smette mai!”, e avrebbe continuato, come in Someday di Bob Seger, a “keep on reachin for the sun” (cercare di raggiungere il sole).

Ma invece, la matura signora di campagna che sono oggi ama la pioggia (quasi) quanto il sole, e ogni tanto chiede a gran voce la sua personale nuvola dell’impiegato (o meglio, della traduttrice), anche perché vive (per estesi periodi dell’anno) in un posto in cui le estati sono fresche ma decisamente soleggiate, almeno negli ultimi anni. E, soprattutto, ha un orto e un giardino.

Come in quasi tutte le cose, anche qui, sono gioie e dolori.

DOLORI: la pioggia porta animali e animaletti, non sempre benefici, soprattutto se parliamo di parassiti delle piante. Ed erbacce, anche, tante, tantissime erbacce. Come se piovesse, ecco. E poi, fango, soprattutto se la terra è, come nel nostro caso, argillosa, che significa blocchi fradici, che si incollano e, se ci cammini sopra, diventano duri come cemento, per poi d’estate prosciugarsi e seccare in macigni aridissimi con tante piccole crepe tipo deserto. Ma duri come il cemento, of course.

GIOIE: a parte, ovviamente, soddisfare la sete di piante che stanno quasi sempre meglio dopo qualunque pioggia anche breve che dopo annaffiature di qualunque forma ed entità: le erbacce si tolgono più facilmente (sempre facendo attenzione a non immacignire il terreno con qualche mossa avventata), il sole, dopo, sembra più caldo e luminoso, il cielo più terso, l’aria più trasparente, e tutto rinasce a nuova vita, o comunque acquista forza, linfa vitale, sboccia e fiorisce, così:

Begonie in fiore

(potete vedere altre foto dal mio profilo Instagram, se volete):

https://www.instagram.com/stories/alexgenova1/2671165787107078692/

La poetica delle cose

Dicono che i poeti devono sporcarsi le mani, giusto? E dunque, sia: da poetessa (o poeta?!) e traduttrice a donna di fatica è un attimo. Ho carteggiato e stuccato una stanza, dato la pittura di fondo, svuotato cuffe di carbone per gli operai che ci mettono il “zetto” ossia le rovine della demolizione, sfoderato e prelavato a mano un divano, fatto la lavatrice, lavato i pavimenti (un sacco di volte!), spostato un materasso, iniziato a riordinare il garage, e nel frattempo lavoro anche (inteso nel senso di lavoro pagato…).  E ancora non ho messo le mani nella terra… spero domani, il giardino aspetta, e forse la poesia si nasconde anche lì, tra un bruco e un’achillea.

Adesso però mi piazzo sul divano con un bel film, e non ci sono per nessuno!

Qui tutto brucia

Qui tutto brucia,
la culla antica
e quella nuova,
i sogni dei vecchi
e i miei.
Questo rigagnolo di fango
non è il mio fiume
questo deserto di sale
non è l’oceano,
solo un letto vuoto
per le ceneri sparse.
Incontro solo briciole
di stelle frantumate
da un pianto inconsolato.
Alla voce del dolore
scivola la nostra innocenza
tra le mani come sabbia
la pietra dello scandalo l’abbiamo
già scagliata molte volte, siamo
senza peccato, senza
un onore da difendere
ci tagliamo i piedi con
percorsi affilati, ci graffiamo
le braccia con errori taglienti
e con artigli di ferro dilaniamo
la nostra carne
e la terra.
Sai che ho spalle forti, mani grandi,
anche se screpolate dalla rabbia,
La cattiveria ci rovina la pelle,
crea inestetismi, indurisce le vene;
ma possiamo affacciare
le nostre labbra sul silenzio,
raccogliere dal pavimento
la sabbia e il latte versato
scrivere perché piova
perché torni l’oceano
a lambire le coste
della nostra fragilità.

Bivio

Mi sento a un bivio, di nuovo. Non è una sensazione sgradevole, tutt’altro, è che non so bene che farne.

Come scrivevo qualche giorno fa, sto facendo quello che amo e posso dire di essere felice, non nel senso che vada sempre tutto bene (mi preoccuperei… 🙂 ) ma nel senso che sento che sono nel posto giusto, al momento giusto, e mi piace essere quella che sono (quasi sempre). Questo mi permette di reggere la barca anche quando arrivano le tempeste, perché arrivano, mica no.

Eppure non riesco del tutto a smettere di proiettarmi in avanti, sarà una vecchia abitudine dura da abbandonare, sarà che ai desideri e ai sogni comunque ci tengo, e benché a volte vorrei spegnere per un momento almeno l’interruttore del cervello, tengo anche ai miei pensieri. Sono qui, vivo l’attimo, sento e amo profondamente quello che c’è, ma anche quello che sarà ha un fascino quasi irresistibile.

Mi basta un’email, l’ipotesi astratta di partecipare a un progetto che mi piacerebbe, e d’improvviso mi ricordo che sì, adesso sto portando a termine quella che è, in questo tempo, una delle cose più importanti della mia vita, e portarla a termine è tanto impegnativo quanto essenziale. E dopo? Ho un lavoro che ho amato moltissimo ma che, come molti amori messi alla prova della quotidianità, sta mostrando segni di logoramento. Vorrei vivere scrivendo ma la parte realista di me dice che è piuttosto improbabile. So che continuerò a dedicarmi a progetti legati a Robin perché non potrei fare altrimenti. Ma per il resto… Così torno a chiedermi cosa voglio fare da grande, pur essendo più che grande da qualche tempo, ma se è vero che si invecchia quando si smette di meravigliarsi e di sognare, beh, io allora ho appena iniziato a muovere i primi passi.

Da una parte sento che le cose succederanno quando sarò pronta perché succedano, mi faccio meno ansie per il fatto di non pianificare, progettare, organizzare, tutte attività che sono scarsamente nelle mie corde, anche se qualche volta sono costretta a dedicarmici. Dall’altra, avendo sempre pensato che possiamo fare molto per rendere la nostra vita il più vicino possibile a quello che vogliamo, non posso tirarmi indietro del tutto e lasciar fare unicamente all’universo e alla sua disponibilità a congiurare perché i miei desideri si realizzino.

Siccome mi succede spesso di trovare nelle parole degli altri il mio pensiero e persino il mio cuore, ho deciso di fare così: prendere i primi libri che mi sono venuti in mente, aprirli a caso e vedere cosa mi dicono.

Lo sai quanto godo di non dover più scrivere una parola? E’ davvero meraviglioso. Nella vita, se hai l’occasione di non ripeterti, prendila. (Tiziano Terzani, La fine è il mio inizio, p. 179).

Sì, in effetti… è l’aspetto del dovere e del non ripetersi che fa presa su di me. Scrivo perché adoro farlo e per quanto posso cerco di sperimentare cose nuove nella mia vita, se non altro di imparare una cosa nuova ogni giorno.

Le Merry Maids, nei pressi di Penzance, in Cornovaglia, sono un cerchio di diciannove grosse pietre, forse un’antica area sacrificale o chissà cos’altro, dove si svolge ogni anno il Gorseld, il raduno dei bardi che cercano di ravvivare la memoria del retaggio celta. Fra queste pietre si sente certo il rispetto per l’oscuro passato svanito, per gli antenati che sono sempre antenati comuni, dell’umanità e della civiltà. Ma questa reverenza, questo senso del mistero riguardano la semplicità della vita che trascorre e sparisce, le pietre e le mucche che pascolano mansuete tra di esse, col loro segreto della vita animale. Possiamo e dobbiamo avere pietas per i druidi e certo ancora di più per le loro vittime rituali, perché erano poveri diavoli come noi e stavano certo peggio di noi. La moda della tradizione celta si involgarisce invece talora nell’esoterismo iniziatico, in un neopaganesimo posticcio, nella compiaciuta superstizione. Quel culto dell’arcano, della magia e delle origini è sempre una pacchianeria sofisticata, come ogni civetteria irrazionalistica. Quanto più profondo è il vecchio detto cornish sulle tre cose più belle del mondo: una donna con un bambino, una barca con le vele spiegate e un campo di grano che ondeggia nel vento. (Claudio Magris, L’infinito viaggiare, p. 44).

Anche questa ha molto da dire: per quanto l’irrazionale mi affascini, il mio senso del mistero è molto legato, credo, al mio amore per la terra, il mare, l’umanità forse anche (per quanto su questo aspetto ho forse margini di miglioramento). I riti pagani non mi attirano molto, e trovo il senso della vita più di tutto nel fatto di viverla.Non  che questo mi aiuti particolarmente nel decidere a che cosa dedicarmi, ma forse devo leggere meglio tra le righe.

Piccola rosa, rosa piccolina / a volte / minuta e nuda / sembra / che tu mi stia in una mano / che possa rinchiuderti in essa / e portarti alla bocca, / ma d’improvviso / i miei piedi toccano i tuoi piedi e la mia bocca le tue labbra / sei cresciuta / le tue spalle salgono come due colline / i tuoi seni si muovono sul mio petto, / il mio braccio riesce appena a circondare la sottile / linea di luna nuova che ha la tua cintura: / nell’amore come acqua di mare ti sei scatenata: /misuro appena gli occhi più ampi del cielo / e mi chino sulla tua bocca per baciare la terra. (Pablo Neruda, In te la terra, in Poesie d’amore, p. 84).

Ecco, questa in qualche modo completa quella precedente: anche l’amore è espressione in buona parte di amore per la terra, unirsi a un’altra persona (o un’altra anima) significa far diventare concreto quel desiderio di terra e di cielo, diventare tutt’uno con essi.

Ma ancora ho l’aurora impigliata in ogni tempia (Pablo Neruda, Bruna, la baciatrice, in Crepuscolario, p. 37). Tutto finirà, un giorno, le parole, le canzoni, i baci, la vita. Ma fino a quando l’aurora resta impigliata alle nostre tempie, il giorno ancora ci aspetta.

Dunque: meno senso del dovere, più passione, più amore, un forte legame con la terra (intesa come pianeta, con tutto quello che contiene), sperimentare qualcosa di nuovo. Beh, sono dei buoni punti di partenza. Sicuramente da qui troverò il modo di andare avanti.