Invecchiare con grazia

Invecchiare con grazia. Già, è una parola. Ci si prova, in mancanza di valide alternative; ma resta il fatto che l’immagine di te che hai dentro resta più o meno uguale, ed è quella che ti aspetti di ritrovare nello specchio, mentre lo specchio racconta un’altra storia, e la faccia che ci vedi lì smette di corrispondere a quella che credevi di conoscere meglio di qualunque altra.

Si invecchia comunque, con grazia o senza. E la mareggiata mi lascia un sapore dolceamaro di scelte fatte per far piacere ad altri più che a me stessa. Scelte che qualche volta si sono rivelate comunque giuste, e qualche volta no. Qualche volta mi hanno comunque portato, attraverso percorsi tortuosi e nient’affatto geometrici, verso la realizzazione di un qualche tipo di sogno, e qualche volta no. È il momento per me di decidere davvero, una volta per tutte, quello che desidero fare, e imperniare la mia vita su quel desiderio.

In uno dei primi ricordi che ho, ero sotto un tavolo.

Credo fosse una stanza dei giochi. Da successivi racconti di mia madre, ho dedotto che forse si trattava del posto dove mi aveva portato una volta o due nel tentativo, del tutto fallimentare, di farmi avvicinare all’inglese prima del tempo. Era la lingua di mio padre, dopotutto. Ed era per questo che lo odiavo, ed è per questo che dopo l’ho tanto amato.

Ecco, penso di aver trascorso un sacco di tempo sotto qualche tavolo, nella mia vita. Di solito era un tavolo metaforico, ma la ragione era sempre la stessa: volevo giocare, volevo conoscere gli altri, volevo scrivere, volevo fare la regista, la professoressa, volevo lavorare all’estero, volevo, volevo, volevo; ma la paura è (quasi) sempre stata più forte.

All’asilo, nel pomeriggio, ci facevano stare con “le mani in seconda”, braccia appoggiate al banco e testa sulle braccia, per fare il riposino. Avevo tante cose da fare, da immaginare, ed ero lì costretta su quel maledetto banco a far finta di dormire.

Da lì mi è rimasta una fortissima resistenza a dormire al pomeriggio – non lo faccio mai, a meno che non sia completamente sfinita – e un odore di pasta al sugo di cui non ho mai più sentito l’uguale, ma che doveva essere davvero insopportabile. Qualche volta, mi pare di avvertire qualcosa di simile, ed è sempre in luoghi e momenti sgradevoli. Avrei preferito le madeleines.

Dovevo apparire davvero infelice, e mia madre decise di risolvere la situazione. Mi mandò a scuola in anticipo, a cinque anni, a costo di iscrivermi a una scuola privata, perché quella pubblica al tempo non accettava primini sotto i sei anni.

Di quella scuola non ho praticamente nessun ricordo, pare che tutto sommato mi trovassi abbastanza bene. Solo che ebbero la cattiva idea di dire a mia madre che ero un genio. Se lei aveva avuto qualche dubbio sul farmi proseguire le elementari lì, quella frase infelice lo eliminò definitivamente: non che ci credesse molto, a quella faccenda del genio, ma anche la vaga possibilità che io potessi essere non “normale” la metteva in ansia, e a ogni buon conto mi iscrisse alla scuola pubblica già dalla seconda. Che io fossi “normale” è sempre stato il suo più grande desiderio per me, qualunque cosa questo significhi.

Sarei diventata un genio, se lei non avesse avuto questa ansia?

Improbabile. Molto improbabile. Tanto per cominciare, sono sempre stata troppo dispersiva.

Eppure, il tarlo… sarei diventata una scrittrice all’età giusta? Avrei smesso di inseguire una passione nuova ogni venti giorni e mi sarei accasata con uno o due sogni grandi, ardenti abbastanza da costruirci intorno una vita?

Improbabile, molto improbabile, anche questo. Soprattutto visto come sono andate le cose nella parte successiva della mia infanzia. E comunque, è passato. Quello che conta è l’oggi.

Il fatto è che oggi mi ritrovo con un sacco di passioni, sogni, cose, pensieri, e quando credo di essermi messa in testa di realizzare davvero qualcosa, mi scontro con una sfilza di ormai. Parola che odio, ma tant’è. La faccia che conosco non lo direbbe, ma lo specchio, il malefico specchio dei miei stivali, qualche volta mi illude, dai, su, sei sempre tu, quella di sempre, più o meno, qualche segno, che sarà mai, e poi torna con la sua liscia superficie argentata e maligna a tormentarmi ancora con quella stessa parola sussurrata all’orecchio. Ormai

A volte, invece, ho ancora la sensazione di avere tutto il tempo davanti. Mentre ascolto la musica che ascoltavo anni fa, oppure quella che avrei dovuto ascoltare, ma scoprirla adesso è un privilegio, il privilegio di chi si emoziona per la prima volta e pensa che nessuno mai abbia provato niente di simile; e poi la musica nuova, quella che per la maggior parte delle persone della mia età è rumore; e anche per me, spesso. Ma qualche volta mi piace, e mi commuovo all’idea che nulla si distrugge e tutto si ricrea, e le cose belle non muoiono, comunque. E scopro e riscopro il cinema (e le serie tv). E ricomincio a leggere. E penso di tornare su libri che ho dimenticato, e di riempirmi la libreria e la testa di libri nuovi, e di andare a teatro. E il deltaplano, e il cavallo, il pianoforte, il giardino, i cani e i cavalli (futuri), la patente da prendere, la bici elettrica, e tutte queste salite e discese… quanto tempo ho? Tutto quello che c’è, giorni, ore, minuti e secondi. Ma più di ogni altra cosa, il senso di infinito me lo dà scrivere.

Scrivere è una fatica enorme. Non sempre ne ho voglia, ma è una fiamma che brucia, sempre. A volte penso che te lo devo, ma no, lo devo a me. Di tutte quelle cose, passioni, voglie e quant’altro, è quella che dura da più tempo; insieme al giardino, forse, ma scrivere mi costa di più, mi prosciuga molto più di quanto non lo faccia vangare e zappare ed estirpare erbacce. Tu sai che più forte è la corrente di amore e desiderio che ti trascina verso un mestiere o una passione (o un mestiere che sia anche una passione, e viceversa), più forte è quel senso di gioia e appagamento che riesce a farti provare, più intenso è il dolore che sta dall’altra parte della medaglia. E viceversa.

Ormai lo buttiamo nel tritarifiuti insieme allo sfalcio e ne facciamo pacciamatura per il giardino, che dici? Nel giardino di agosto fioriscono le dalie, l’ibisco, la vinca, e persino le rose. Quest’anno ci pianto anche un hamamelis e un calicanto, per avere colore il prossimo inverno. E insomma, lo vedi, io sto scrivendo.

Radici

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Ogni tanto ci torno sopra… scrivo, e poi riedito, sempre alla ricerca di onestà, che quando si scrive è cosa del tutto diversa dalla verità, credo; rieditare la propria memoria, il racconto di una vita, è cosa delicata, ma va fatto. Perché bisogna essere onesti non solo nel ricordare, ma anche nel raccontare quei ricordi a chi non c’era. E dopo tutto, anche a chi c’era, ma ricorda in modo diverso. Perché la memoria, lo sappiamo bene, è soggettiva, e paradossalmente fragile, per un oggetto da cui traiamo la nostra forza.

Sono nata alle dieci di un mattino di quasi estate, non è mai stato ben chiaro se in anticipo o in ritardo.

Nel dubbio, il dottore salì con le ginocchia sulla pancia di mia madre per costringermi a uscir fuori. Metodo drastico, allora non del tutto inaudito, oggi, spero, caduto definitivamente in disuso. Nel tempo, ho sviluppato una certa  cautela nel mio approccio verso il mondo e le cose, e chissà che la mia brusca venuta al mondo non abbia avuto, in questo, una parte di un certo rilievo. Fu di certo traumatica per mia madre, furiosa per quell’abuso compiuto mentre si trovava in condizione di debolezza e impossibilità di reagire.

Mia madre è un bizzarro miscuglio di femminismo, insicurezza, difficoltà a farsi valere e dire di no, forza interiore, senso di colpa, bisogno di tenerezza e forte difficoltà di comunicazione emotiva.

Ha, o almeno aveva, anche quella convinzione, comune a non poche donne, di doversi assumere, per qualche oscura ragione, la mission impossible di cambiare un uomo estremamente problematico, tralasciando la propria presente infelicità in cambio della speranza di un’irrealistica, futura felicità perfetta.

Non si spiegherebbe altrimenti perché entrambe le relazioni importanti della sua vita siano state con uomini difficilissimi, molto diversi tra loro, ma comunque segnati dalla malattia e dalla violenza, subita o agita.

Quando conobbe mio padre Donald, in Inghilterra – ha sempre amato quel paese, luogo di fuga dalle catene familiari, di libertâ, di amore ancora puro e incorrotto – lui era già stato in guerra in Indocina, e ne era tornato con strani disturbi, di cui si sapeva pochissimo e si diceva ancora meno. Sindrome post traumatica da stress… forse. Nessuno usava quell’espressione. Si era parlato – certo sottovoce – di schizofrenia. I demoni si combattevano in silenzio. Solitudine. Vergogna. Alcool.

L’alcool che lo ha ucciso, fermandogli il cuore a 37 anni.

Mio padre è una ferita mai chiusa, la prima perdita, morto senza che io potessi fare in tempo a conoscerlo, o anche solo sapere di averlo visto; tanto che il mio dolore è rimasto lì, per anni inconsapevole, un sentimento fuori posto, uno spazio vuoto che bruciava, da cui uscivano, a momenti, granellini di rabbia, di paura, di nostalgia; la mancanza di qualcosa di cui non sapevo niente.

In seguito, per lungo tempo tutti i tentativi di mia madre di farmi innamorare dell’inglese fallirono miseramente: non volevo proprio saperne, a nessun costo. Oggi, benché ci siano nel mondo, a parte Genova, almeno tre o quattro luoghi che mi piacerebbe chiamare casa, mi capita spesso di pensare che la mia vera casa non sia un posto, ma una lingua: e quella lingua è l’inglese.

Mio padre, dicevo, era un inglese alto, dal viso angoloso e dolce. Quando si chinava su qualcosa di piccolo e indifeso, il suo sguardo sembrava assorbire e poi ritrasmettere la luce. La tenerezza gli creava piccole rughe sulla bocca, intorno agli occhi, sulle guance; e da quelle pieghe usciva e poi rientrava, come se, attraverso gli altri, lui potesse almeno un po’, almeno per qualche momento, proteggere sé stesso. Lo so perché ho una sua foto in cui mi guarda, minuscolo esserino in culla, io che forse sbadiglio e piango nello stesso momento, coi pugnetti chiusi, e lui che accenna un sorriso. Tu sei l’unica altra persona in cui io abbia rivisto con tanta intensità quello stesso sguardo.

Da lui ho ereditato qualche foto, i suoi occhi azzurri, una lingua; l’amore per la scrittura; un nome che ricorda il suo Paese di nascita, ma non troppo esotico per il Paese in cui aveva scelto di vivere; un legame tra due culture che mi appartengono entrambe, senza che debba sentirmi divisa; e la fortuna di non credere nei confini.

Non ho ereditato la sua malattia.

Mia madre si è portata dietro per anni la paura che i disturbi di mio padre non fossero solo una conseguenza della guerra, e che potesse averli trasmessi a me. Tremava al più piccolo segno di ribellione, e fino a quando non ho saputo la storia che c’era dietro, la disapprovazione che leggevo nel suo sguardo, o nel modo in cui pronunciava il mio nome, anche quando non avevo la minima idea di che cosa, esattamente, ci fosse da disapprovare, ha bloccato sul nascere ogni possibile allontanamento, anche lieve, dalla retta via di una consolidata normalità.

Credo che un po’ mio padre ti somigliasse; che aveste in comune una certa fragilità, acuita dagli eventi, e al tempo stesso una forza dolce, la capacità di non lasciare che le circostanze esterne cambiassero il nucleo essenziale su cui costruivate la vostra visione del mondo. Una bontà profonda, difficile, dura, che richiede molta più forza d’animo del cinismo e della ricerca di un nemico a cui affidare la parte di noi stessi che non ci piace, o la responsabilità del fallimento delle nostre vite.

Fu per suo desiderio che si trasferirono in Italia, a Genova, città d’origine di mia madre, e credo che lei abbia sempre rimpianto quella scelta.

Forse per questo, benché io abbia con Genova un legame molto stretto, ho sempre avuto e ho tuttora nel cuore una porta aperta verso altri luoghi; ma l’ho amata da subito, anche quando, per un lungo periodo, ho creduto di odiarla. È una città strana, ruvida, scorbutica, solitaria, apparentemente chiusa, ma capace di profonde tenerezze e di accoglienza concreta, senza fronzoli.

A Genova sono nata e ci vivo, ma non è per questo che la amo. È che Genova mi sorprende sempre. I suoi mari e le sue nuvole, San Martino alta e bassa, il Chiappeto e Borgoratti, il forte Richelieu, il Santa Tecla e il Puin, Boccadasse e Sampierdarena, Castelletto e la Maddalena, i carruggi e la Via Nuova, la Ripa Maris e il porto, i suoi monti sventrati e le sue divisioni, De André e Caproni, i salotti e i camalli.

Credo che anche il posto dove siamo nati influenzi il nostro carattere. Io non so se definirmi ruvida; scorbutica credo di sì, a volte; solitaria di sicuro, fino addirittura a una forma di lieve misantropia, che non mi impedisce di  incuriosirmi per le altre persone, di qualunque provenienza, e di coltivare (poche) amicizie profonde e durature.  La mia tenerezza l’ho conquistata a fatica con anni di lavoro, e la riservo a persone molto vicine o a piccoli gesti quotidiani, senza quasi mai esprimerla a parole. Il pudore di Genova. Il pudore di mia madre, e del mare. Perché dopotutto sono una donna di mare, benché non vada (per ora) in barca a vela; e lontano dal mare non potrei vivere; i luoghi dove ho immaginato e immagino, più o meno seriamente, di poter abitare sono molto diversi tra loro, ma tutti hanno in comune il mare.

Il mare, si sa, ha un forte simbolismo come luogo di origine e al tempo stesso di partenza, potrà essere pure una radice, ma è una radice instabile, in perpetuo movimento, aperta e infinita; è liquido protettivo ma anche profondo, abissale, anzi; arioso, azzurro e pieno di luce eppure oscuro e segreto. Chiunque sia nato vicino al mare non può non condividere sia pure in minima parte i suoi mutamenti di umore, i passaggi a volte inspiegabili dalla serenità all’agitazione e persino alla tempesta. E io lo so bene, io che passo per un tipo tranquillo e raramente agisco sopra le righe: perché nei miei pensieri – e nei miei improvvisi scatti d’ira – racchiudo tutte le inquietudini di tutti gli oceani del mondo.

 

Ricominciare a scrivere

è una priorità.

Stasera mi è tornata la voglia di scrivere di te. Mi suona strano tornare a rivolgermi direttamente a te, come facevo ormai un bel po’ di tempo fa. L’ho fatto per anni, e poi per un pezzo ho smesso, e ogni tanto riprendo, ma non è più così naturale, quasi inevitabile, come mi sembrava allora.

Non vorrei perdere niente, pensavo stasera, né cose né persone, ma le cose si perdono comunque, e poi la mia distrazione è proverbiale. Anche le persone, qualche volta, si perdono.

Non pensavo a te, ché a te non ti ho mai avuto, ma non ti ho mai nemmeno perso, e non intendo certo farlo adesso. A te, non ti perderò mai, niente può cambiare questo fatto. Nel tempo in cui non ti ho scritto, non ho certo smesso di pensarti. Ti ho solo pensato in un altro modo, facendo altre cose, ricordandoti attraverso la costruzione di altre memorie.

Pensavo, invece, alle persone incontrate ed entrate poi, per poco o per tanto tempo, nella mia vita, conoscenze, amicizie, simpatie, persone con cui ho avvertito un’affinità. Persone con cui a volte sono entrata in intimità, e non parlo tanto di amore, quanto di confidenza, di uno scambio di segreti anche minuscoli, ma importanti. E con le quali adesso non ci si sente più, per tante ragioni.

E allora sai cosa pensavo, che in te, in quella strana distanza-vicinanza, in quel non averti avuto e non averti mai perso, ci sono tutte quelle cose e persone mai dimenticate, tutto quello che è stato detto e ascoltato, tutto quell’amore che c’è e che non posso dare a nessun altro, perché può appartenere solo ai protagonisti di quei ricordi perduti e a te, che non sei memoria né presenza, ma che non ho mai potuto fare a meno di amare.

Che non ho mai voluto fare a meno di amare.